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La lezione mancata di onorare una leggenda con il derby in campo

Giocare la sfida nel giorno dell'anniversario sarebbe stato l'ideale per celebrare il ricordo

La lezione mancata di onorare una leggenda con il derby in campo

L e leggende non hanno tempo, non hanno scadenza, non hanno archivio. Settant'anni senza il grande Torino sono una memoria contemporanea, viva, fresca, come il colore granata, russ cume el sang, scrisse Giovanni Arpino che ne riassumeva la forza e la tragedia. Si celebra una scomparsa ma dovremmo commemorare una presenza e un'epoca nella quale la squadra del Torino rappresentava il meglio della gioventù italiana e il Filadelfia il suo teatro, poi violentato e deturpato dall'ignoranza di uomini e istituzioni. Settant'anni dopo, restano cimeli, cippi, fotografie, memorie narrate da chi, quelle gesta e quei gesti, ebbe la fortuna di vedere, senza il filtro furbo, a volte fasullo, della televisione, al massimo con i filmati de L'Unione Cinematografica Educativa, l'Istituto Luce che ne riportava le partite, i gol e rare interviste. Chi non ha visto la basilica di Superga, chi non è entrato al vecchio Filadelfia, chi non ha conosciuto Ossola e Gabetto, Mazzola e Maroso, Tosatti, Cavallero, i loro figli, le loro vedove, non può comprendere e non può spiegare. Non per il dolore o lo strazio ma per il patrimonio storico che il nostro calcio, così arrogante e ignorante, ha smarrito da quel giorno di Maggio del Quarantanove, era mercoledì 4, un pomeriggio avvelenato dalla maledetta nebbia.

La memoria è stata onorata lavandosi la coscienza in frettolose rievocazioni e mai dedicando un torneo, un riconoscimento (se non per iniziativa privata), a quella squadra, a quei dirigenti, a quei lavoratori, magazzinieri, massaggiatori e giornalisti che tornavano da Lisbona senza sapere che la nebbia sarebbe stata eterna. La leggenda resta immutata nell'immagine di Valentino Mazzola e di Franco Ossola, di Loik e di Castigliano, in quella degli altri grandissimi granata, nel destino che salvò la vita, per una serie di circostanze fortuite e fortunate, a Nicolò Carosio, a Tommaso Maestrelli, a Vittorio Pozzo, a Sauro Tomà.

I tifosi non hanno voluto che si giocasse il derby in questa ricorrenza, eppure sarebbe stata la partita ideale per ricordare e continuare a onorare, con il pallone in campo, due squadre, la città tutta, in doveroso rispetto. Ma gli acidi di fazione, le rivalità, hanno avuto il sopravvento, quasi a dire che nemmeno in una data emotivamente così forte non si possa stare assieme e vivere come sapeva vivere e giocare e vincere quel Torino, unico, irripetibile. Pagine bellissime e mille sono state scritte da poeti e romanzieri, su quella squadra, ma è il popolo, quello vero e sincero, non certo la ciurma della tifoseria ignorante, a conservarne il ricordo e il rispetto anche del nome, non Toro, che fa venire alla mente la corrida e la sfida impari, ma Torino, appunto, una città illustrata dalla squadra di football che Ferruccio Novo, il presidente, aveva voluto affidare a un ungherese di grande sapienza calcistica. Si chiamava Ermo Egri Erbstein, aveva allenato, tra le altre, il Bari, il Cagliari e la Lucchese. Egri, come decise di chiamarsi, cancellando Erbstein, come sua figlia Susanna, ballerina classica di grande successo nella nascente televisione della sede di Torino, Egri, dunque, capì che sarebbe stato opportuno modificare il doppiovuemme, WM, il modulo inglese di Herbert Chapman. Ne scaturì una difesa solida, una protezione altrettanto robusta e il Torino prese a fare cronaca e poi storia. Il Filadelfia diventò il vulcano davanti al quale svanivano i pronostici degli avversari. Nello stanzino a piano terra erano stati conservati gli armadietti, ripiani di legno, a cubo, nei quali i calciatori granata riponevano le scarpe da gioco; in un altro locale, di fianco alla scala che saliva verso la tribuna d'onore, era stata collocata l'enorme ruota in gomma nera del Fiat G 212, il charter di quel giorno nerissimo. Per noi giovani cronisti, frequentatori di quel luogo sacro al football, ogni spigolo, ogni finestra, ogni cimelio, profumava di olio canforato e di epica, provocando un momento di silenzio nel fragore delle risate di Pecci e Cereser, nel vociare di Edmondo Fabbri, nel fumo delle sigarette di Gustavo Giagnoni, negli occhi vivaci di Gigi Radice, c'era il Torino dovunque e comunque, dentro e attorno al Fila che resistette fino al Maggio del Sessantatre, ultima partita, ultimo pareggio contro il Napoli, un gol a uno, quello granata realizzato da un uomo che avrebbe proseguito la storia e la leggenda, Enzo Bearzot.

Ecco perché il Torino è ancora presente, non soltanto nelle maglie di Baselli o Belotti, ma nella pelle di chi ama il calcio, di chi ha studiato la sua storia, di chi non dimentica gli uomini, semmai le tattiche. Verranno altri calciatori, verranno altri allenatori ma, settant'anni dopo, restano il Torino, l'urlo della sua folla, il suono del corno di Oreste Bolmida, il vecchio cuore granata. E l'improvviso silenzio di quel giorno di maggio.

Eterno, come la squadra.

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