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L'Italia produce talenti ma non si fida a farli giocare

Dai nostri vivai buoni giocatori ma senza prospettive L'Inter li lancia e non li utilizza, nel Milan più spazio

L'Italia produce talenti ma non si fida a farli giocare

Se l'Inghilterra, uno dei paesi più ricchi ed evoluti del mondo, viene ancora considerata la patria della tradizione è perché da quelle parti sono bravissimi a mixare il culto delle abitudini con la modernità. Wimbledon, dove negli anni sono cambiate un sacco di cose senza che mai ne fosse intaccata la sacralità, è l'icona sportiva di questo modo di essere. Ma anche nel calcio della Premier League, che in questo millennio si è sempre più globalizzata guadagnando valore economico e tecnico ma perdendo identità, ci sono frammenti di un passato che resiste e si rinnova tenendo in vita l'anima del gioco più amato.

L'identità delle squadre, ciò che le lega ai loro tifosi, sta nel sogno di ogni bambino (cresciuto o meno) di poterci giocare, e quindi il sogno realizzato di chi riesce a indossarne la maglia dopo aver fatto la trafila nel settore giovanile è un po' il cuore di tutta la faccenda. Bene, nel Manchester United - che forse è la multinazionale del calcio per eccellenza - da ottant'anni non manca mai in campo almeno un giocatore formato nel vivaio. L'ultima assenza capitò nel 1937, poi una catena di talenti fatti in casa ha incarnato lo spirito dei Red Devils passandosi ininterrottamente il testimone: Lingaard e Rashford sono gli ultimi prodotti di un'Academy che ha sfornato tra gli altri anche Giggs, Beckham e Scholes.

Inutile dire che la bellezza di questa storia sta nel suo essere in romantica e anacronistica controtendenza. In Europa, infatti, il numero dei giocatori che trova posto nella squadra in cui militava a livello giovanile è in calo costante: secondo uno studio del Cies che prende in esame 31 campionati del vecchio continente, i giocatori che hanno soggiornato per almeno tre anni in un club nella fascia d'età compresa tra i 15 e i 21 e che poi ce l'hanno fatta a fare il «salto» in prima squadra sono passati dal 23,2% del 2009 al 18,5% del 2017, con un calo del 4,7% in 9 anni.

Neanche a dirlo, al 1° ottobre scorso in testa alla classifica c'era l'Athletic Bilbao con 20 giocatori: nel loro caso il legame con il territorio è sancito dallo statuto societario che impone di tesserare solo giocatori baschi, ma se al secondo e terzo posto ci sono altre due squadre iberiche (Real Sociedad con 15 e Las Palmas con 12) significa che in Spagna sono più attenti che altrove alla questione, e probabilmente questo c'entra anche con i loro successi. Spagnoli sono anche i vivai più prolifici, almeno da un punto di vista della qualità. Prendendo in esame i cinque campionati europei più importanti, il Cies ha scoperto che la «cantera» da cui sono usciti più giocatori professionisti (41) è quella del Real Madrid, seguita da quella del Barcellona (34), del Lione (31), dell'Athletic Bilbao (29) e del Manchester United (28).

E l'Italia? In questa classifica piazziamo l'Inter al 6° posto con 23 giocatori, il Milan all'8° con 22, la Roma al 14° con 20, l'Atalanta al 30° con 15, la Fiorentina al 42° con 13 e la Lazio al 49° con 11. Non sono cattivi risultati, i nostri vivai continuano a produrre professionisti di buon livello anche se bisogna ricordare che anche a livello giovanile la percentuale di stranieri è in costante aumento. Semmai il vero problema è che pochi di loro riescono a mettere radici: attualmente 7 al Milan, 4 alla Lazio, 3 alla Roma, all'Atalanta e alla Fiorentina, appena uno all'Inter.

Lasciando da parte il solito discorso sui nuovi Maldini e Totti, perché quel tipo di talento non è mai programmabile, con questi numeri un primato come quello del Manchester United dalle nostre parti non sarà mai avvicinabile.

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