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Mura, dalle bici alla cucina cattivi pensieri in bello stile

Scontroso ma gradevole, sfuggente ma protagonista Pronto al piacere della vita, non a palchi e riflettori

Mura, dalle bici alla cucina cattivi pensieri in bello stile

C inquant'anni di professionismo non mi sembrano proprio dei cattivi pensieri. Gianni Mura tira diritto, in testa al plotone, non di esecuzione. Non sbanda, non accomoda, eventualmente si accomoda, non volge altrove lo sguardo anche se a fermare la sua carriera provò uno che si chiamava Di Schiena, Luca Di Schiena, cattolico fervente, presidente della commissione di esame dinanzi alla quale il ventunenne Gianni si presentò per ottenere l'idoneità alla professione giornalistica, già frequentata sui fogli liceali, al Manzoni di Milano e, poi, sulle pagine della Gazzetta dello Sport. Il Di Schiena Luca esordì con una domanda che era una provocazione arrogante: «Non ritiene di essere troppo giovane per fare il giornalista?». Gianni non mise il grugno, come è solito fare oggi quando qualcosa non gli garba, ma restò spiazzato. Sarebbe stato sufficiente smontare il quesito: lo stesso presidente di commissione aveva incominciato il mestiere ad anni ventitré, entrando all'Eiar come radiocronista. Mura rispose con una serie di «non so» ad altre domande, noiose e annoiate, tutte di politica e il docente lo rimandò alla sessione successiva.

Gianni se ne tornò in treno a Milano con l'idea di mollare l'avventura e di tornare agli studi universitari di lettere moderne. Scrisse due righe di dimissioni e lasciò il messaggio alla Gazzetta. Venne convocato alle ore sei del pomeriggio ma fu accolto da bottiglie di spumante e tramezzini, la voce di Zanetti spiegò cordialmente il motivo della festicciola: «Ringraziamo del rinfresco questa gran testa di cazzo del giovane Gianni Mura che si è fatto bocciare agli orali. E questo è il segnale che può diventare un buon giornalista». Senza informare il Di Schiena di cui sopra, Mura andò dunque in fuga, continuò a scrivere e a farsi leggere. Passato l'autunno di quell'anno in cui l'Inghilterra vinse il mondiale, venne la primavera e Mura prese a Roma la medaglia che gli aveva già appuntato sul petto, a Milano, il comandante e docente vero, Gualtiero Zanetti, direttore.

Premessa lunga che serve, tuttavia, a spiegare il resto, in breve, cinquant'anni di carriera e di vita. Gianni Mura non è erede di nessuno, chi lo avvicina a Brera o non ha letto Brera o non legge Mura, due modi diversi di intendere e scrivere, anche e soprattutto di vivere. Mura non è erede di nessuno e non lascia eredi, cosa che accade con i fuoriclasse che sono appunto fuori classifica. Quando lo presentano come miglior giornalista sportivo vivente si commettono errori vari: l'aggettivo sportivo è un limite abbondantemente superato. Il vivente, poi, ricorda lapidi e obitorio. Migliore? Di chi? Di quale tribù o associazione, ordine, federazione? Raccontare Gianni è impresa molto più difficile che narrare Mura. Il primo è un oggetto misterioso, sta dentro una corazza che non è soltanto il suo rotondo corpo, la barba e gli occhi spesso semichiusi e quell'espressione un po' così di chi ti inviterebbe a dar via l'oggetto che viene suonato in chiesa, ma la sua vita è assolutamente normale, educata, essenziale e, posso dire, vissuta con massima discrezione accanto a e insieme con Paola che è moglie, compagna, complice, collega, ugualmente discreta, silenziosa e presente. Il secondo, dico il cognome, è sulle pagine di fogli, quotidiani e libri, è una firma seguita (c'est mieux etre suivi que suivre, Pierre Chany), inseguita anche, da radio e televisioni e a tutti sfuggita e sfuggente perché Gianni ha vinto su Mura, dunque la vita e il giornalismo prima di tutto; escludere il resto: esibizioni, palco, telecamera, microfono, tutta roba che provoca intolleranza e crisi di rigetto, come l'ostrica ingoiata a La Duchesse Anne di Saint-Malò e sputata, clandestinamente, nella toilette, mentre il resto della compagnia gazzettiera se la spassava davanti al plateau royal di mitili noti. Gianni si porta appresso l'educazione da figlio di un carabiniere, Antonino, sardo, trasferito a Cesano Maderno, per giuramento e fedeltà all'arma, uso ad obbedir tacendo. Germana, madre di Gianni, era fiera di un figlio che sapeva parlare e scrivere, era il tempo del liceo Manzoni, in lingua italiana, bella, fresca e gentile.

In mezzo secolo Gianni Mura ha scritto di tutto e dovunque, forse su qualche muro anche, roba varia, tipo Intrepido, Starter, poi anche illustre, Gazzetta, Epoca, Repubblica, più che un tour de force, un Tour de France. Niente laurea all'università di lettere moderne, dunque, ma una modernità di lettere, vocali e consonanti, con dottorati vari in sport, musica, cibo, vino, letteratura, cruciverba, anagrammi, rebus, quesito della Susi, giochi di parole e di carte. Inutile sfidarlo, lui parte con cinque giri di vantaggio, tema libero, Panizza o Paolini, Cerilli o Tarabbia, Tavernello o Pingus, Brassens o Pilade, sugheri e tappi a vite. Lo stile della parola è uguale a quello della scrittura, Olivetti o penna biro, mai il computer, freddo e anonimo come un vassoio di spinaci in un autogrill di Vladivostok. Rispetto ai suoi sodali, che di cucina e affini si occupano, Mura mai presenta le proprie credenziali ai ristoratori, preferisce l'anonimato, paga il conto senza sconto, poi, eventualmente, scrive e giudica.

Il Gargantua, pronto al piacere della vita e non certo alla vita di piacere, sa essere, al tempo stesso, solitario ma non final, addormentato all'ombra di un ulivo, e crepuscolare come era Antonia Pozzi, sua straziante poetessa preferita in giovinezza. Anche Mura, come mille sognatori, scriveva poesie e Gianni Brera lo invitò a desistere: «Gianni Mura è un bravo figlio/però scrive sonetti/così gli dò un consiglio/ Giovanni Mura smetti». Chiedendo scusa al maestro Gioanbrerafurcarlo mi permetto di correggere: «Gianni Mura è un bravo amico/ eppur qualcuno insinua/ così ora gli dico/Giovanni Mura continua»

(20. Continua)

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