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Non si vive di sole «allegrate» Ma la Juve riparte da Max

Il presidente lo conferma, però il ko brucia più delle finali perse. E in un anno si salvano solo tre partite

Davide Pisoni

L'idillio Agnelli-Allegri resiste nella notte più dura di questi cinque anni. L'Ajax peggio delle finali perse di Berlino e di Cardiff, delle eliminazioni con Bayern e Real Madrid. Perché l'impressione di essere alla fine di un ciclo si è toccata con mano nel secondo tempo contro i ragazzini terribili di Ten Hag. Eppure il presidente e l'allenatore della Signora hanno voluto mettere un punto. E a capo. «Andiamo avanti con Allegri»; «Resto, ho già parlato con Agnelli». La forza delle parole, delle volontà di presidente e allenatore, adesso dovrà reggere ai fatti, a un ambiente in fibrillazione, alle voci di Conte che tornano con insistenza. Il confronto interno c'è già stato, c'è e ci sarà perché più di qualcosa non ha funzionato. C'è unità d'intenti, non necessariamente di visioni.

L'Ajax ha manifestato nella sua interezza il paradosso della stagione bianconera. Una Juventus che ha vinto il campionato a marzo, ma che è giudicata un fallimento. Perché l'Ajax è stato la conseguenza di una annata vivacchiata più che vissuta, giochicchiata più che giocata. All'ombra di Cristiano Ronaldo, che ha accecato tutto e tutti. Il tutto iniziato con le parole di Andrea Agnelli: «Vogliamo vincere tutto». Non solo, l'arrivo di CR7, quelli di Cancelo ed Emre Can, il riscatto di Douglas Costa e il ritorno di Bonucci hanno scaraventato la Signora in una dimensione tale da bocciare una stagione che si chiuderà con la conquista dell'ottavo scudetto consecutivo (più la supercoppa). Appunto il titolo numero otto di fila.

Ci sono peccati originali che hanno accompagnato la Signora in questi mesi. Uno su tutti: l'equivoco Dybala. Allegri con l'arrivo di CR7, ha capito e fatto capire subito che sarebbe stato difficile trovare la quadra alla coppia, che poteva stare solo sulla carta. La Joya tuttocampista non ha funzionato. E contro l'Ajax sono emersi i limiti del gioco. Negli occhi rimangono appena tre partite: con il Napoli all'andata in campionato; quella di Old Trafford con il Manchester United nel girone Champions; la remuntada con l'Atletico Madrid. Non ce ne voglia Allegri, ma è come se la Juventus non avesse mai intrapreso la via del gioco. Eppure in Europa è fondamentale, come dimostra l'Ajax, avere un'identità. Non si vive di sole intuizioni, come Emre Can difensore. Possono essere l'eccezione, l'allegrata per fare l'impresa. Poi serve continuità, la cui mancanza trova una possibile duplice spiegazione. In campionato ai bianconeri spesso, quasi sempre, è bastato giocare mezz'ora per vincere le partite e poi gestire. La Champions non te lo consente, ma il lavoro di Allegri ha trovato una serie di imprevisti nei momenti cruciali: la tiroide di Emre Can, il cuore di Khedira, il ginocchio di Cuadrado. Poi una serie di muscoli e polpacci traditori. E qui nella preparazione atletica qualcosa non ha funzionato. L'allenatore toscano è chiamato in causa perché l'occasione di giocarti la Champions con il campionato in tasca a marzo difficilmente ricapiterà. La squadra non ha mai avuto brillantezza, la coppa Italia lasciata senza colpo ferire nella notte di gennaio a Bergamo è stato un campanello d'allarme inascoltato.

Se si riparte da Allegri non servirà una rivoluzione della squadra, ma non basteranno semplici correzioni. Tre innesti pesanti, uno per reparto, due di prospettiva per dare freschezza. La Juve di Agnelli in questi dieci anni lo ha sempre fatto. Una Signora non è mai stata uguale, ma nemmeno simile all'altra. Ma stare Allegri è difficile, anche con uno scudetto pronto da festeggiare. Senza voglia.

Il paradosso bianconero.

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