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«Nonno Pinin e papà sarebbero felici della hypercar Battista»

Il presidente di Pininfarina: «L'innovazione era il loro forte. Gran feeling con Mahindra»

Pierluigi Bonora

«Cosa direbbero nonno Pinin e papà Sergio della hypercar elettrica Battista (dedicata appunto al mitico nonno, ndr) da 1.900 cavalli esposta al Salone di Ginevra? Penso che sarebbero contenti. Proprio loro, tra l'altro, sono stati gli artefici di due modelli altamente innovativi per quei tempi: la Cisitalia del 1947 prefigurava i modelli nati negli anni '60 e la Dino del '65 ha di fatto anticipato le Ferrari di oggi con il motore centrale. Papà, allora quarantenne, era fresco presidente e anche il nonno era relativamente giovane».

Paolo Pininfarina, presidente dell'azienda che porta un cognome entrato nella leggenda dell'auto, ha un sogno da esaudire: «Quello - ci rivela - di portare la Pininfarina a compiere i 100 anni, nel 2030, in modo glorioso.

Ingegnere, il percorso è comunque avviato. Dopo che tre anni fa il colosso indiano Mahindra ha preso il controllo dell'azienda, lasciando però al management italiano la gestione, la situazione è più che mai favorevole.

«Il bilancio di questi tre anni è senza dubbio più che positivo. La società è stata stabilizzata dal punto di vista patrimoniale e finanziario. Come conseguenza, questa azienda è ora in grado di sviluppare un business di medio e lungo termine, rispetto a prima quando si guardava al breve periodo, ma sempre conservando l'eccellenza del nostro design».

Una grande e rapida trasformazione.

«Abbiamo potuto allargare i servizi di design anche al mondo Mahindra, che vuol dire auto, bus, van, trattori e macchinari vari. Ma anche i modelli di vetture con il marchio SsangYong. Importati, inoltre, le sinergie con Tech Mahindra».

Gli azionisti indiani vi hanno lasciato campo libero, non interferiscono.

«La società ha mantenuto la sede a Cambiano, in Piemonte. E sono rimasti il presidente, cioè il sottoscritto, l'amminustratore delegato Silvio Pietro Angori, il direttore del design e altri manager».

I grandi marchi italiani sono sempre più ambiti dai colossi asiatici, arabi e russi. Il suo punto di vista.

«Il capitalismo italiano vive un momento difficile da anni. E lo Stato non lo ha aiutato. Ma fino a quando viene garantito, come nel caso nostro, il radicamento sul territorio, l'investitore straniero ci può stare. I capitali non hanno passaporto».

Con gli indiani, dunque, avete un rapporto speciale.

«Mi piace parlare bene di queste persone. La loro strategia è chiara anche nel caso di Jaguar Land Rover, gruppo nelle mani di Tata. Dietro gli indiani c'è una cultura occidentale, britannica: la cultura del diritto internazionale, la lingua inglese, il valore della famiglia, del business di famiglia e l'etica».

Pininfarina si può considerare una società globale.

«Nonno Battista voleva avere un cliente importante in ogni mercato importante. Siamo italiani con il business proiettato verso l'estero. Il 90% del fatturato arriva infatti dall'export».

Al Salone di Ginevra ho incrociato Sergio, figlio di Andrea, suo fratello scomparso. Incredibile la somiglianza di suo nipote con nonno Sergio.

«Sergio è appassionato di auto e si è lanciato in un progetto hi-tech che guarda al cloud e alla connettività. Lasciamolo lavorare tranquillo: lui e gli altri giovani della quarta generazione Pininfarina».

E sempre a Ginevra lei ha incontrato proprio il signor Mahindra.

«Abbiamo parlato della hypercar Battista. La scelta di creare una vettura del genere, elettrica al 100%, è stata di entrambi. Elettrico è sinonimo di innovazione, non aveva senso realizzarne una ibrida o con motore termico. Questo è un progetto ambizioso, che punta a stabilire un nuovo punto di riferimento nel rapporto tra mobilità e grandissime prestazioni».

Come va con Ferrari?

«Continuiamo a collaborare nei pezzi unici e nelle serie limitate.

Nel design non c'è più il legame di una volta».

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