Russia 2018

Orfana di Ibra ma più forte del collettivo. Ecco perché questa Svezia può farci paura

Nessuna stella, un pragmatico 4-4-2, un gioco rodato. E in casa la Svezia non perde mai

Orfana di Ibra ma più forte del collettivo. Ecco perché questa Svezia può farci paura

Jan Olof “Janne” Andersson è un tipo di allenatore in cui è facile imbattersi nel Nord Europa. Basso profilo, anni e anni di gavetta alle spalle, concetti semplici e nessuna pretesa a parte quella di andare a letto alla sera con la convinzione di aver fatto un buon lavoro. Ne sono emersi molteplici negli ultimi anni, dal connazionale Lars Lagerback (Islanda 2012-16) a Micheal O’Neill (Irlanda del Nord) fino a Heimir Halgrimsson (Islanda 2016-17). Tutte nazionali unite dal comune denominatore della mancanza di stelle, sopperita dal cuore e dallo spirito di gruppo. La Svezia una stella ce l’aveva ma, quando è arrivato Andersson, sua maestà Zlatan Ibrahimovic aveva annunciato il suo ritiro dalla nazionale. Era appena terminato l’Europeo del 2016, giocato malamente da una Svezia legnosa e priva di idee. Ma proprio dall’addio dei senatori – oltre a Ibra avevano salutato anche Kallstom e Isaksson – è partito il lavoro di questo 55enne laureato in pedagogia sportiva che in 33 anni di carriera non è mai uscito, a livello professionale, dal proprio Paese, e che ha sollevato il suo primo trofeo solo nel 2015, portando il Norkopping a vincere il titolo nazionale 26 anni dopo l’ultimo successo.

Il grande merito di Andersson è stato quello di infondere nuova linfa ad un gruppo uscito logorato dall’Europeo, facendolo guardare avanti e riuscendo ad estrarre il meglio da molti elementi che, quando in squadra c’era Ibrahimovic, risultavano psicologicamente frenati dalla presenza di un giocatore tecnicamente di un altro pianeta. Non si spiega altrimenti come una squadra per l’80% uguale a quella finita ultima nel proprio girone a Euro 2016 sia arrivata a disputare i play-off per il Mondiale dopo essersi messa alle spalle l’Olanda e aver fatto tremare la Francia (oltretutto battuta alla Friends Arena, un bunker inviolato dal settembre 2015) nel proprio gruppo di qualificazione. Una Svezia andata a segno in tutte le partite tranne l’ultima contro l’Olanda, dove però bastava non perdere 7-0 per raggiungere i play-off. Una Svezia che più tradizionale non si può: 4-4-2 con gioco prevalentemente sviluppato sulle fasce, solidità e fisicità in mezzo, un cingolato davanti (Marcus Berg, miglior marcatore della nazionale nelle qualificazioni). Nomi nuovi ce ne sono pochi, ennesima testimonianza del pragmatismo di Andersson, tenutosi a debita distanza da tentazioni “rivoluzionarie”, magari per dare spazio ai suoi vecchi pupilli del miracolo-Norkopping. Tra i pochi giovani spiccano Ken Sema, centrocampista della rivelazione di Europa League Ostersunds, e Isaac Kiese-Thelin, attuale capocannoniere del campionato belga.

Il vecchio-nuovo corso è simboleggiato anche dalla “stella” Emil Forsberg, il giocatore tecnicamente più dotato della rosa, ma che proprio a livello mediatico e iconico rappresenta l’anti-Ibrahimovic per eccellenza: schivo, taciturno, addirittura noioso da intervistare (sono parole del padre). Ma in campo le idee sono chiare, proprio come quelle del suo tecnico. «Il calcio è uno sport di squadra, un buon collettivo e un’idea di gioco possono fare la differenza tanto quanto una stella».

Traduzione: manca Ibra, ma la Svezia non è meno temibile di prima.

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