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Quando "l'Aquila" scattò in faccia ad Armstrong

Accadde nel finale della Liegi 2003. Atleta con le stimmate sia del capitano sia del gregario

Quando "l'Aquila" scattò in faccia ad Armstrong

Liegi-Bastogne-Liegi del 2003: fasi finali della salita di St.Nicolas, il quartiere degli italiani. Re Armstrong, che a quel tempo come grandi classiche si degnava di onorare solo la Liegi e l'Amstel, imprime un ritmo spaventoso. Il gruppo si allunga, iniziano a saltare in diversi. Ad un certo punto s'intravede una divisa striata, bianca e nera, che risale dalle retrovie. Rientra su Armstrong e senza nemmeno guardarlo, si fionda dall'altra parte della strada scattandogli in faccia. «Armstrong mi ha fulminato con lo sguardo - disse dopo l'arrivo - ma io mi sentivo bene e son partito. Ho fatto male?». Aveva 23 anni e mezzo, Michele Scarponi. Quel quarto posto alla Doyenne fu il primo squillo di un corridore dalla classe cristallina.

Era un atleta vecchia maniera, uno cui piaceva mulinare il rapportone. Stilisticamente perfetto. Un talento sbocciato in una terra, le Marche, non fertile di campioni. Scarponi invece poteva ambire ai Grandi Giri. Da quel mattoncino sul St.Nicolas comincia a cullare il sogno del Giro d'Italia. Non ha vita facile. Sceglie di correre in Spagna nel momento peggiore. Il dottor Fuentes, l'Operacion Puerto delle famose sacche di sangue congelate. Rimane impigliato anche lui nella ragnatela del doping sebbene mai sia stato trovato positivo ai controlli. A differenza di tanti colleghi non sale sul carro del vittimismo o della menzogna e con serietà, una volta scontata la squalifica di 18 mesi, riparte da piccole squadre. Vince la Tirreno-Adriatico e tre tappe al Giro tra cui quella del Mortirolo nel 2010, quando sfiora il podio. Saronni gli dà fiducia e nel 2011 Michele lotta come può contro un mostro che si chiama Contador. A Milano è secondo e quando tempo dopo gli assegneranno il Giro per la penalizzazione dello spagnolo accoglie il verdetto con disincanto. Non avrebbe mai pronunciato la frase: «Ho vinto il Giro», semmai: «Mi dicono che quel Giro l'avrei vinto io...sì, ma...alle spalle di Contador».

Questo era Scarponi. Umile, buono, generoso. Avesse avuto un altro carattere avrebbe guadagnato e vinto di più. Nelle ultime stagioni ha dovuto emigrare, come quasi tutti quelli bravi, in una squadra straniera. Angelo custode di Nibali sia al Tour che al Giro, avrebbe fatto la stessa cosa con Aru quest'anno se il sardo non si fosse infortunato. A Innsbruck aveva dato un colpo di fioretto precedendo due papabili per la maglia rosa (Thomas e Pinot) e il fatto che ieri alle 8 del mattino fosse già in sella la dice lunga su quanto ci tenesse a far bene nella corsa che riteneva "sua". Personalmente lo conobbi a Lisbona durante i Mondiali del 2001. Lui era dilettante e venne selezionato per la prova a cronometro nella quale finì ottavo. Io ero al primo mondiale come telecronista Rai. Lo intervistai alla vigilia della gara e da subito mi ispirò buon umore. Non avevo la più pallida idea se sarebbe diventato o meno un bravo corridore ma di certo era uno simpatico che faceva gruppo. Col passare degli anni l'ho conosciuto meglio apprezzandone innanzitutto la schiettezza. Secco, diretto, senza mezze frasi o sotterfugi. Professionista impeccabile in ogni ruolo gli venisse assegnato. Un atleta che aveva le stimmate sia del capitano che del gregario. Doti che si era conquistato sul campo, mostrandosi e comportandosi senza artifizi ma in maniera perfettamente naturale. E anche per questo tutti gli volevano un gran bene.

Auro Bulbarelli
Giornalista Rai Sport

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