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Ora ridateci il calcio di Diego. Siamo stufi di questi "robot"

Con la morte di Maradona si chiude l'epoca del calcio "puro". Ci restano campioni "robot". Si è portato via la poesia

Ora ridateci il calcio di Diego. Siamo stufi di questi "robot"

I palleggi a Fuorigrotta con la maglietta bianca e un paio di jeans. Così quel capello arruffato dal sorriso malinconico è arrivato a Napoli. Era passato dal mare della Catalogna a quello che guarda il Vesuvio, dalle regole del Barça alla bolgia calda di Napoli. Presentazioni di giocatori come quella di Maradona non ci sono più. Oggi si arriva in sede in Porsche, flash di qualche giornalista, due tifosi con gli smartphone e poi l'austera conferenza stampa, spesso priva di contenuti. Diego aveva ribaltato tutto. Era uno di loro, era uno di noi. La maglia celeste con quegli sponsor anni '80 da Cirio a Mars hanno segnato le ore del calcio, la meraviglia di un'epoca difficile da rivivere. Non aveva fronzoli. Era puro. Puro come il suo calcio e il tempo che ha segnato. Già perché Maradona ha toccato il pallone quando ancora non c'erano Var, arbitri di porta e tecnologia a servizio dell'unico gioco semplice che possa esistere. Subito dopo la vittoria del primo scudetto a Napoli, sulle mura del cimitero apparve una scritta: "Che vi siete persi...". E cosa ci siamo persi noi con la scomparsa a 60 anni del Dio del calcio. Un Dio che non ha avuto comandamenti. Ha solo dettato assist ai compagni e lanciato moniti dal limite dell'area di rigore.

La musica, la baldoria, l'essere sempre e comunque un figlio di Napoli ha cambiato radicalmente il rapporto tra una città del Sud che ancora viveva nel sogno del riscatto calcistico con un giocatore capace di incarnarne il calore che corre lungo il Vesuvio e trova sfogo solo nel golfo. Quel calcio in cui la chioma di Diego si muove incrociando le treccine di Gullit e i baffoni di Virdis non lo rivedremo più. Amava girare per la strade di Napoli e cantare. Cantava anche di notte. Quando alle prime luci dell'alba una vecchietta lo redarguì proprio sotto il suo balcone, il 10 rispose: "Sono Maradona". E lì tra una mezza risata incredula quella "mamma di Napoli" rispose: "Ah siete voi? Siete Maradona? E allora cantate, cantate...". Difficile oggi immaginarsi Ronaldo che canta per la strade di Torino all'alba o Messi per quelle di Barcellona. Quando arrivò a Napoli di argentino aveva solo il passaporto. Per tutto il resto era diventato un partenopeo sanguigno. I suoi gol scanditi dalla voce rauca di Tutto il calcio Minuto per Minuto e quei due scudetti arrivati dopo cavalcate impensabili contro i tulipani rossoneri hanno dato voce a quell'urlo strozzato in gola per troppi anni da parte di un popolo che cercava nel calcio la forza per rivendicare con orgoglio l'appartenenza al Sud. Tutto ciò è finito. Ha resistito a stento fino alla fine degli anni Novanta.

Nella memoria collettiva il calcio sanguigno e vero che abbraccia lo stupore si è forse fermato al Fenomeno, Ronaldo pure lui arrivato qui passando per Barcellona. Poi il vuoto. I campioni visti come icone da Play Station e sullo sfondo i ricordi patinati di un'epoca calcistica che aveva reso l'Italia epicentro della Storia del pallone. Negli stessi anni in campo avevamo Platini, Maradona, Gullit, Van Basten. Oggi ci rallegriamo perché testimoni dell'inevitabile tramonto calcistico di miti come Ibra o Cr7. Ancora in forma ma arrivati in Italia per percorrere l'ultimo tratto della carriera. Diego era arrivato qui nel pieno del suo splendore calcistico con il piede carico di veleno. Pronto a scagliarsi sulle porte avversarie. Ripeteva sempre: "Dopo la metà campo comando io". Lo sapevano bene tutti, anche i portieri che dovevano sacrificarsi ogni domenica alle sue traiettorie. Gesti tecnici, smorfie, sorrisi, abbracci, ma anche lacrime che hanno rappresentato lo sfondo di un calcio dal sapore davvero antico.

Chiacchierando con Emir Kusturica aveva rivelato di aver previsto tutto sin da quando aveva otto anni: il calcio, la Nazionale, l'Argentina campione del mondo. "Non ho previsto una sola cosa - aveva raccontato - la cocaina. Pensa cosa sarei potuto diventare senza la cocaina". Già, probabilmente avrebbe chiuso gli almanacchi del calcio per i prossimi due secoli. Ma quel suo tallone d'Achille, tipico di chi sta a metà tra il divino e la realtà ha rappresentato nella sua carriera un elemento di disordine che lo ha del tutto allontanato dall'etichetta del campione perfetto, del campione robot a cui oggi siamo abituati. È in quella sua lotta contro la dipendenza che poi si è rivelato l'uomo Diego. Poco capace di andare in porta. Debole e poco spavaldo. Al posto della bolgia del San Paolo si è ritrovato circondato da chi ha cercato di approfittarne sfruttando il suo nome e anche le sue ricchezze accumulate in anni di fatica vissuti prima nella povera Argentina e poi riscattati con orgoglio in Europa. Ridateci storie così. Storie di eroi fragili che toccano il pallone ma anche i vicoli e quelle case in cui si tifa per loro. Ridateci un altro Diego.

Ma sappiamo già che la fortuna di averlo visto giocare è un favore del fato che difficilmente riuscirà a ripetersi.

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