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"Prima lo studio e poi la gloria". C'era una volta baby Scuffet

Lo volevano Atletico e Milan, ma i genitori dissero di no. "Deve diplomarsi". E adesso riparte dal Como in serie B

Simone Scuffet
Simone Scuffet

C'era una volta Simone Scuffet. Incominciavano così le favole ma che altro era la storia di questo "frut" del Friuli che sembrava destinato a essere il migliore portiere del football italiano dopo Gigi Buffon? Una fiaba piena di cose, l'età verdissima, soltanto diciassette anni all'esordio in serie A, sedici presenze con la nazionale under 17, 5 con la Under 18, 12 con l'under 19, convocato per uno stage da Cesare Prandelli, inserito da Don Balon tra i migliori 100 calciatori del mondo, la corte dei grandi club, il tentativo di Diego Simeone di portarlo all'Atletico, al posto del belga Courtois che sarebbe tornato al Chelsea: nove milioni all'Udinese con eventuale bonus al termine della prima stagione con gli spagnoli (fenomenale tra Liga, Coppa del re e Champions).

Pozzo, padrone del club friulano, aveva già fatto i conti e prelevato dal Granada, un'altra società calcistica di sua proprietà, il greco Karnezis per ovviare alla partenza del ragazzo; Vagheggi, il procuratore del portierino, era pronto a sbarcare in Spagna, salario triplicato da 250mila euro a 900mila all'anno per anni cinque, un bel prendere, roba da cambiare vita non soltanto domicilio.

Anche il Milan si era messo in coda, Milano non è Madrid ma con l'autostrada si fa in fretta a tornare a casa, un milione per la comproprietà, attesa inutile. Perché mai?

Simone Scuffet tiene famiglia, non ancora moglie e figli: Donatella e Fabrizio sono i suoi genitori, amano il calcio ma non ne sono drogati, sanno che Simone deve ancora finire gli studi, il diploma di ragioniere all'Istituto tecnico commerciale di Udine è una garanzia per il futuro, dunque papà fa il bidello e insegna pallavolo, la madre è casalinga, poche parole, molti fatti, tengono Simone stretto al fogolar di Romanzacco e alla scuola, non se ne fa nulla, mandi , come dicono a Udine al momento dei saluti.

La storia era bella da raccontare e da scrivere, finalmente un esempio per tutti, un ragazzo con la testa e i parenti a posto, niente discodance e facili denari, tutto casa e scuola, dopo l'allenamento con l'Udinese. «Tutti i genitori vorrebbero avere un figlio così» disse Guidolin, allenatore dei bianconeri di Udine. Il quale Guidolin però non completò il pensiero chiedendosi «tutti i figli vorrebbero dei genitori così?».

Scuffet passò l'esame, il diploma riposa nella sua stanza, assieme a maglie di football, gagliardetti e medagliame vario. Ma poi? La favola è diventata cronaca, Scuffet non ha più visto la porta, il calcio non fa sconti, ai giovani italiani sbatte la porta in faccia, il ragazzo del Friuli si è messo da parte, ha osservato, dalla tribuna o dalla panchina, il greco, compagno suo, fare cose belle, ha capito che il tempo delle mele era finito. Niente Atletico di Madrid, niente Milan, niente nazionale, la ricreazione era conclusa, suonata la campanella Simone è rientrato in classe per studiare, apprendere, migliorare.

Nessuno, dico tra i grandi club, lo ha più cercato, Pozzo ha visto crollare il titolo di Borsa del ragazzo, dieci milioni? Nemmeno al fantacalcio di Disneyland.

E così ecco che è apparso, timidamente, il Como, quel ramo del lago del calcio che fu, riemerso in serie B grazie all'impegno del presidente Porro.

Sembra un romanzo, come quello scritto da Folco Quilici che porta il titolo de La dogana del vento , storia di un portiere immaginario del Como della metà degli anni Settanta, figlio di un'italiana e di un militare cosacco, di colpo ritrovato, trent'anni dopo la guerra ma invano cercato, inseguito, dal protagonista del romanzo, nelle terre di Italia e di Austria. Simone Scuffet ricomincia la propria storia indossando la maglia azzurra del club lariano. Non è una favola, non è un romanzo. È calcio.

Basta e avanza.

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