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Tutta colpa dello United se l'Islanda sbrana i Leoni

Negli anni '80 il calcio stava morendo, ma un ricco tifoso organizzò una tournée del Manchester di Best...

Gli islandesi si preparano a riprodurre il suono dei geyser con i loro tifosi
Gli islandesi si preparano a riprodurre il suono dei geyser con i loro tifosi

Nella sala conferenze dell'hotel Les Tresoms, nei pressi del Lago di Annecy, splendida location scelta dall'Islanda quale sede del proprio ritiro per Euro 2016, c'è un quadro raffigurante un chihuahua all'inseguimento di un rinoceronte, con a lato una frase attribuita ad Albert Einstein: «Se non lo sai spiegare in modo semplice, non l'hai capito abbastanza bene».

L'Islanda, la grande rivelazione dell'Europeo, sono stati in pochi a capirla. Tra questi sicuramente non gli inglesi, che dietro le dichiarazioni di facciata sorridevano e si davano di gomito al momento del sorteggio. I giocatori della nazionale dei Tre Leoni da tempo non sono più maestri di calcio per nessuno, tranne che proprio per gli islandesi, cresciuti a pane e calcio inglese fin dal primo momento in cui la tv compare sull'isola dei ghiacci. «Da ragazzo guardavo le partite di First Division e della nazionale», ricorda Heimir Halgrimsson, il co-allenatore dell'Islanda assieme allo svedese Lars Lagerback, «sebbene venissero trasmesse una settimana dopo. Ieri come oggi, conosciamo tutto il loro calcio a memoria».

Il citato Lagerback ha annoverato tra i propri maestri proprio Roy Hodgson, che a metà degli anni 70 andò in Svezia ad allenare importando nuove metodologie tattiche e un modulo, il 442, che nel paese scandinavo all'epoca nessuno utilizzava. Nell'estate di cinquant'anni fa l'Inghilterra vinceva il suo primo e unico grande torneo, il Mondiale casalingo, mentre pochi mesi dopo l'Islanda perdeva 14-2 contro la Danimarca. In tempi più recenti, l'interesse nei confronti del calcio era sceso a livelli talmente bassi che negli anni 80 l'imprenditore Halldor Einarsson invitò il Manchester United e George Best per un paio di amichevoli. «Solo l'Inghilterra», dice Einarsson, «poteva far loro riscoprire questo sport».

Per il match di lunedì all'Allianz Riviera si può davvero parlare di allievo che ha superato il maestro, oltretutto utilizzando le stesse armi che per lungo tempo almeno fino a metà anni 90 - avevano caratterizzato gli inglesi: organizzazione, corsa, fisico, orgoglio e spirito di squadra. Piccolo paese, grandi idee, perché dietro al successo islandese c'è questo: programmazione e visione. Grazie ai fondi UEFA e alla strategia politica della KSI (la Federcalcio islandese), oggi l'Islanda annovera 9 campi indoor regolamentari, 25 campi con erba sintetica e 150 campetti di dimensioni ridotte (fino al 1957 non esistevano campi in erba, fino al 2000 da ottobre ad aprile ci si poteva allenare solo nelle palestre), oltre a 600 allenatori in possesso di patentino UEFA A o B in pratica un tecnico professionista ogni 825 abitanti. Il risultato è stato un paese di circa 330mila abitanti, con 4.800 tesserati, capace di eliminarne uno che può vantare un numero di praticanti ufficiali 313 volte superiore. Per non parlare del costo dei singoli giocatori: in Islanda-Inghilterra l'undici titolare dei nordici era composto da quattro parametri zero e sette giocatori costati in totale 20.2 milioni di euro, ovvero quasi un terzo di quanto pagato dal Manchester City per il solo Sterling. Contro gli inglesi l'Islanda è andata in gol per l'undicesima partita consecutiva.

Chi la chiama favola è perché non l'ha capita abbastanza bene.

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