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Tyson, il re dei bruti ha messo ko se stesso

Duro, violento, cattivo, drogato Eppure... ultimo mito

Tyson, il re dei bruti ha messo ko se stesso

di Tony Damascelli

Mezzo secolo di Tyson. Cinquant'anni di pugni, violenti, alla vita e agli avversari, nelle strade e sul ring, un tempo senza inizio e con una fine che nessuno può immaginare. Nemmeno lui, oggi, diverso da ieri ma imprevedibile, sempre. Si gode una esistenza che ha bruciato, come i dollari, farfalle, coriandoli, cinquecento milioni, forse di più.

Vita venduta alla droga, a undici anni già a tirare di coca, senza mai un padre e Lorna, la madre, alcolizzata; corpo volgare pronto a stuprare, cicatrici di un male essere, scritto così, mezzo secolo trascorso inseguendo angeli e demoni, affamato di sesso, di forza bruta, brutta, esplosiva. Lui stesso in True, il titolo del libro, il racconto di questa epoca sua, non fa sconti, non chiede perdono, non si giustifica. L'incontestabile verità è diventata uno show sui palcoscenici di mezzo mondo, un cartone animato, spettacoli teatrali. È l'assuefazione al caos, a una serie infinita di round, il gong ha suonato mille volte e il match continua, l'avversario è lui medesimo, un giorno finisce al tappeto, un altro si rialza, ascolta il conteggio, riprende la sfida. Mike Tyson è tutto quello che non dovrebbe mai essere un campione ma campione è stato, vero, a vent'anni mondiale, e poi ancora, distruggendo chiunque gli si parasse davanti, non con l'eleganza e lo stile di Alì ma con la brutalità di chi altro non conosce e non intende conoscere. Battersi per battere ed abbattere. Non certo un modello ma la cosa non lo interessava ma forse lo era soltanto per chi aveva la stessa taglia esistenziale. Un giorno gli capitò di essere intervistato da un giovane reporter il quale, presentatosi nella palestra dove Tyson si stava allenando, venne preso in giro dagli altri pugili. Il cronista si era quasi rifugiato a fianco del suo idolo, Mike tirò fuori il Corano e invitò tutti al silenzio e a rispettare quel ragazzo che stava facendo il suo lavoro. Ci fu anche una fotografia ricordo. Un paio di settimane dopo, l'Fbi convocò Tyson in una palestra non lontana da quella dell'intervista. L'isolato era bloccato dalla polizia, un agente mostrò al pugile la fotografia del giornalista: «Lo conosci?» «Certo, gli sono piaciuto», rispose Mike. Il giovane reporter, timido e deriso, aveva sparato a quindici persone e ammazzate nove. Era un serial killer e teneva la foto di Tyson appesa al muro della stanza della sua casa. Aveva trovato ispirazione in quell'incontro. Tyson, ovviamente, non ne sapeva nulla. Fu un incidente di percorso uno dei mille.

Diventa fastidioso sfogliare un album di cose brutte mentre si dovrebbe ricordare il campione che mena sventole e sono di acciaio, un cannibale che morde e sputa via l'orecchio del rivale che osa colpirlo troppe volte con la testa bassa, un uomo che va a caccia di donne e le possiede. E le violenta. Poi finisce in carcere e scopre che, forse, la vita è bella. Dura lo spazio di un round. Fotogrammi di un maledetto, più nero dei neri che non lo hanno mai amato veramente. Ricordo quella volta a Londra, era il 2000: Mike Tyson provò a mettere piede nel falansterio di Brixton, una fetta sporca della città dove i neri fanno setta, casta, clan. Tyson si presentò profumato e carico di gioielli, al collo e al polso, era un santo in processione. I fans si ribellarono, un milione di sterline di ingaggio per fare a pugni, per loro era un'offesa. Presero a fischiarlo e a urlargli contro, il campione fu costretto a rifugiarsi nella caserma di polizia, parlò con il megafono da una finestra, poi fuggì da Brixton a bordo di un furgone, scortato da altre camionette. Una vita da film ma senza colonna sonora, thriller in attesa dell'ultima scena che non arriva mai: «Non dimentico un solo pugno dei miei avversari, soltanto la morte mi potrà dare la pace».

Auguri.

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