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Stasera la finalissima di Champions League Ferguson e Guardiola: solitudine dei numeri uno

Barcellona-Manchester United si gioca tutta in panchina: il baronetto sogna il trionfo nello stadio dell’Impero e il catalano vuol completare la rivoluzione Ferguson si affida a toni da Mou, all’arte della provocazione per non parlare della partita. Guardiola fa morire d’invidia Madrid

Stasera la finalissima di Champions League 
Ferguson e Guardiola: solitudine dei numeri uno

Non so quanti chewing gum abbia masticato Alex che morde l'aria come vorrebbe fare con l'avversario. Non so quante volte Pep abbia nascosto le mani nella tasca di quei pantaloni che sembrano stirati addosso e attorno alle sue gambe. Manchester United-Barcellona è la finale perfetta ma la partita si gioca in panchina, uomini e allenatori, storie di terre lontane e feroci, Scozia e Catalogna, il respiro di chi vuole essere libero per essere indipendente.
Alex Ferguson oggi è sir ma era un sindacalista a Clyde, Pep Guardiola può comprarsi tutta Barcellona ma Miquel Marti, il poeta comunista che lui adorava, gli ha insegnato un altro senso della vita. Il libro della solitudine, il titolo dell'opera che Martì decise di dedicare a Pep, l'artista delle diagonali in campo, perché il Camp Nou sta lungo la Diagonal e allora Pep sapeva bene che cosa fare con il pallone. Alex continua a masticare la sua gomma alla menta, firma un autografo, un altro ancora mentre i suoi diavoli si scaldano e preparano la fottuta partita. Sono fatti così i britannici che allenano, non usano il fair play, vanno diritti sul muso di chi gli si piazza di fronte, ringhiano sapendo che i lupi si fanno agnelli, possono chiamarsi Eric o Wayne, Cantona o Rooney. «Per il boss non è importante vincere la partita. Vincere è l'unica cosa per cui si deve giocare», diceva con fastidio, il francese con il colletto alzato della maglietta, nuovo Napoleone prima dell'esilio.
Pep Guardiola ha occhi tondi e scuri come olive, basta il suo sguardo e Lionel Messi sa che deve sbrigarsi, basta un segnale e Carlos Puyol abbassa la criniera e allunga la bazza, mi ricorda Victor Munoz, pedone di un vecchio Barca e poi della Sampdoria; dicevano i compagni di spogliatoio che Victor dovesse usare il remo della barca per pulirsi i denti. Il baronetto di Govan se la gioca a Wembley, è il sogno di qualunque cittadino britannico che ami il football, lo stadio imperiale, non più quello monumentale con le coperte in lana e la tazza di the fumante a scaldare le gambe e il petto dei lord in tribuna d'onore ma sempre, eternamente Wembley. Pep sa benissimo che questa sera la storia può fermarsi tra i terrestri o salire in cielo.
Londra è l'isola del tesoro, il Barcellona non deve dimostrare altro. Ma lo deve dimostrare. Alex conosce il serpente catalano, ne è rimasto avvelenato, crede di avere trovato il farmaco per renderlo innocuo e poi ucciderlo. Dicono che abbia chiesto informazioni a Mourihno. Balle da portineria. Il vate di Setubal ha preso baccalà in faccia dal nemico Pep, semmai Alex da Mou ha imparato l'arte della provocazione, l'entrata da dietro, la mano de Dios, lo strepito contro l'arbitro o la Bbc, qualunque cosa pur di non parlare della partita, degli errori e delle omissioni. Guardiola conosce la tattica, sa che la strategia della tensione stavolta non serve. Si gioca e basta. Pep ha voglia di cantare Itaca, del suo amico Lluis Llach, il più grande cantautore catalano, scappato dalla Spagna durante il periodo franchista. Alex una ha voglia matta di vincere la sua terza coppa, per agguantare Bob Paisley che riempì l'argenteria del Liverpool.
Manchester è United soltanto con le magliette rosse dei diavoli, l'altra Manchester, quella City non tiferà. Barcellona non è la Spagna, a Madrid, Valencia, Siviglia, sanno benissimo chi spingere questa notte. È strano il calcio.

Trecento milioni di spettatori lontani da Wembley caldo di ottantamila voci ma per Alex e Pep sarà la partita della solitudine.

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