Cultura e Spettacoli

Stato-Chiesa, un filo rosso da Cavour a Mussolini

Il volume curato da Girolamo Cotroneo e Pier Franco Quaglieni (Cavour, Discorsi su Stato e Chiesa, Rubbettino, pagg. 330, euro 13), raccoglie gli interventi su questa materia del grande statista piemontese dal 1852 al 1861. In quell’anno Cavour, attraverso la celebre frase «Libera Chiesa in libero Stato», affermò l’idea della separazione e non certo della contrapposizione tra queste due sfere della vita associata, a tutela di un’autentica libertà di culto e di una laicità liberale rispettosa di ogni fede. Questa posizione costituì il punto di riferimento ineludibile per l’intera classe politica e intellettuale dell’Italia post-risorgimentale (da Marco Minghetti a Francesco Ruffini, a Giovanni Giolitti), fino a quando, come spesso si è detto e si continua ripetere, il Concordato del 1929 pose fine alla stagione del separatismo cavouriano.
La firma dei Patti Lateranensi provocò il malcontento di uomini della vecchia guardia liberale, poi transitati nelle fila del fascismo, come Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe, ma soprattutto di Croce. Al filosofo che, nel suo discorso al Senato, definì quell’accordo un tradimento dell’eredità del Risorgimento, Mussolini rispose non soltanto con la famosa invettiva che poneva Croce tra gli «imboscati della storia», ma anche con una più convincente argomentazione. Con essa si sosteneva che il superamento definitivo della «questione romana» non rappresentava «una costruzione miracolistica» voluta dal regime fascista, ma piuttosto «una soluzione lungamente e sapientemente elaborata» che non rinnegava ma che, invece, portava a compimento gli sforzi di quanti dopo il conseguimento dell’unità avevano voluto assicurare all’Italia un’autentica «pace religiosa».
In realtà, l’accordo del Laterano non fu il frutto del decisionismo di Mussolini, ma al contrario solo l’ultimo passo di un percorso preparato in larga misura dalla classe politica liberale dalla Grande Guerra in poi. Il cosiddetto «Concordato fascista» scaturiva, dunque, da premesse e valutazioni di lunga durata, alle quali avevano dato un largo contributo anche gli orientamenti prevalenti di un’opinione pubblica non fascistizzata.

In quest’ottica, è così possibile ipotizzare che, se il sistema politico italiano fosse stato capace di superare la crisi politico istituzionale del dopoguerra, sarebbe giunto a un approdo forse diverso in alcuni punti da quello del 1929, ma non diametralmente opposto.

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