Roma

Storia d’una morte annunciata I troppi errori della Asl Roma D

È la cronaca di una morte annunciata quella di Ambrogio Calabrò. Una brutta storia di malasanità che si incrocia con quella dello smantellamento del Cpo deciso dall’Asl Roma D. Se l’ospedale per mielolesi di Ostia fosse stato potenziato, infatti, la sua vicenda sarebbe potuta essere diversa. Era certamente un malato a rischio Calabrò. Oltre all’amputazione della gamba destra, era affetto anche da diabete e ipertensione. Quel che è successo da ottobre 2006 a luglio di quest’anno, però, non può essere giustificato, secondo la famiglia, solo con i problemi di salute. Tanto che adesso sua moglie, Marianna Mroz Calabrò, ha deciso di rivolgersi alla magistratura.
È il 20 ottobre quando dal Cpo, dove era ricoverato per alcuni problemi renali, viene trasferito al Grassi per accertamenti. Ma lì Calabrò viene letteralmente dimenticato su una barella, in attesa di un esame, per oltre 25 ore. In questo modo si procura una grossa piaga da decubito all’altezza dell’osso sacro. La ferita non si rimargina e l’uomo è costretto a finire in sala operatoria il 25 gennaio. Teoricamente servirebbero due-tre settimane per guarire e invece nei successivi due mesi la vita di Calabrò è un inferno. La piaga non si richiude e continua a presentare secrezione tanto da costringerlo ad assumere potenti farmaci antibiotici. Le complicazioni del postoperatorio, così, durano fino ad aprile.
Ma è l’ultima parte della vicenda che, forse, è ancora più incredibile. Secondo la denuncia-querela presentata, gli antibiotici assunti avrebbero accelerato «il già grave processo di dialisi e provocato un’altra serie di insufficienze e infezioni». Il 10 luglio di quest’anno Calabrò viene accompagnato dalla moglie al Grassi per la dialisi delle ore 14. Ma è proprio durante il trattamento che un medico si accorge che il paziente presenta «febbre alta e forti brividi». La dottoressa di turno spinge così la famiglia a trasferire Calabrò al policlinico Di Liegro «con mezzi propri». Ma la moglie si oppone viste le difficili condizioni in cui versa l’uomo. Passano ore finché Calabrò viene trasportato, intorno alle ore 20, al Di Liegro con un’ambulanza, dove, è bene precisarlo, non c’è né il pronto soccorso, né la terapia intensiva, né un anestesista di guardia (ma solo per le urgenze chirurgiche). Addirittura un medico consegna alla moglie del paziente mieloleso gli antibiotici prescritti, perché al Di Liegro non li avrebbero trovati. Quando arriva al policlinico, però, Calabrò ha già perso coscienza. Sistemato in una stanza, all’una e 50 di notte ne viene solo constatato il decesso per «shock settico».
La moglie ora denuncia alla magistratura «l’assoluta negligenza del personale medico che lo ha assistito e le limitazioni alla tutela del diritto alla salute, imposto irresponsabilmente, quanto irrazionalmente, dall’amministrazione aziendale sanitaria e da quella regionale». Questo l’atto d’accusa nei confronti «della direzione regionale dell’Asl Roma D, dei medici responsabili dell’accaduto e delle strutture sanitarie coinvolte». A dover chiarire se sussistano dei reati dovrà essere adesso la Procura di Roma. Una sola certezza, però, accompagna la vicenda di Calabrò.

Se fosse stata attivata la terapia subintensiva al Cpo, con ogni probabilità, Ambrogio Calabrò sarebbe ancora vivo.

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