Mondo

Storia e intrighi di Stange l'allenatore dei dittatori

Guidava e spiava gli atleti ex Ddr, poi di Saddam e ora di Assad: "L'importante è guadagnare"

Storia e intrighi di Stange l'allenatore dei dittatori

Ha lavorato per la Germania Est di Honecker, per l'Iraq di Saddam e da qualche mese è al soldo di Bashar Al-Assad in Siria. Quando a Bernd Stange gli viene chiesto se si sente una sorta di «ambasciatore del diavolo», soprannome affibbiato a Rudolf Hess, il numero tre del partito nazista dopo Hitler e Goring, lui serafico risponde: «Valuta e nazioni non hanno alcuna importanza nel calcio. Non c'è differenza se vieni pagato in dollari, euro, sterline o in dinari iracheni. L'unica cosa che conta davvero è lavorare per portare a casa uno stipendio che ti consenta di vivere». Eppure il dribbling di Stange, 70 primavere sulle spalle, non è efficace quanto quelli di Messi. Tenta l'approccio amichevole e disincantato, ben sapendo in cuor suo di non essere un semplice allenatore giramondo come tanti colleghi. Le sue avventure meriterebbero di essere raccolte in un romanzo, perché Stange sembra un personaggio partorito dalla penna di Henning Mankell. Diventa persino facile immaginarlo nei panni del cospiratore, oppure dell'uomo di collegamento tra i servizi segreti deviati della Lettonia e la mafia russa, come i protagonisti che popolano il romanzo I cani di Riga. Quello tra Stange e i servizi segreti non è un accostamento fantasioso o campato in aria. Per anni il suo nome è stato legato a quello della Stasi, il temuto servizio di spionaggio dell'ex Germania Est. «Roba vecchia che risale a prima della caduta del Muro - taglia corto - storielle che nessuno è mai riuscito a dimostrare in modo concreto». E qui si sbaglia perché nei documenti desecretati dopo il novembre del 1989 e appartenenti all'allora ministro per la Sicurezza Erich Mielke, il nome di Stange viene fuori tra quelli a libro paga della Stasi nel mondo dello sport. C'è il suo, quello di Matthias Sammer, così come addirittura il nome di Jan Tomaszewski, fenomenale portiere della Polonia anni Settanta, solo per citarne alcuni tra i più famosi. Stange venne nominato Ct della Germania Est non solo per le sue indubbie capacità sportive, ma anche per controllare i calciatori e riferire se qualcuno di loro avesse intenzione di attraversare il confine o di vendere informazioni a ovest. Un'etichetta che gli è rimasta incollata come una seconda pelle. Ed è così che nel febbraio del 2003 venne contattato da Saddam Hussein in persona per guidare l'Iraq. Siamo in un momento cruciale per il futuro di Bagdad. È in pieno corso l'operazione «Shock and awe» e il raìs, messo alle corde dall'avanzata americana, ha bisogno di sorvegliare tutto, compresi i «Leoni della Mesopotamia», gli atleti della nazionale. I dossier redatti da Stange finiscono direttamente sulla scrivania del sanguinario Uday, figlio di Saddam, quello che si era fatto un certo «nome» sbattendo in galera i reduci della disastrosa trasferta iridata in Messico del 1986.

Stange è abile a negare l'evidenza e a giocare con le parole, si difende invitandoci a «chiedere spiegazioni direttamente ai protagonisti di questa storia, ma dubito che abbiano la possibilità di farlo». Sostiene di avere un solo «padrone», la Fifa, che aggiorna continuamente dossier sugli allenatori disposti a lavorare all'estero per nazioni del terzo mondo. «Il mio nome era inserito su quella lista di missionari del pallone. Ero disoccupato e non ho mai conosciuto qualcuno che vivesse d'aria». A Bagdad le difficoltà per Stange sono all'ordine del giorno, ma il peso della responsabilità non sembra schiacciarlo. «Non c'è scritto da nessuna parte che allenando in Iraq si debba morire sotto le bombe, oppure essere sbranato da un leone in Camerun, o morsicato da un serpente velenoso in Australia. Sono fatalista». E anche fortunato, perché un gruppo di rivoltosi tentò di assassinarlo sulla strada che portava dall'albergo al centro federale. La pallottola destinata allo 007 tedesco finì per conficcarsi nella testa del suo autista. A quel punto Stange fuggì in Giordania, non prima di aver regalato alla famiglia Hussein il nominativo di una decina di giocatori non proprio fedelissimi al raìs. Ovviamente la loro fine è ignota.

A distanza di tre lustri la storia si sta ripetendo in Siria. Anche nei momenti più drammatici, quando il sedicente Califfato dettava legge su un'abbondante fetta della nazione, Assad non volle fermare il campionato di calcio, che alla fine si era trasformato in una sorta di torneo interno tra le squadre di Damasco. Quando lo scorso 31 gennaio Stange è atterrato in Siria, in molti si sono trovati di fronte a un film già visto. La locale nazionale di calcio è formata in buona parte da calciatori dell'Al Jaish, la squadra dell'esercito. Il presidente siriano, soprattutto dopo la clamorosa diserzione del suo amico d'infanzia, il brigadier generale Manaf Tlass (fuggito prima in Turchia e poi riparato in Francia), ha bisogno di avere la situazione sotto controllo e il tecnico tedesco sa perfettamente come muoversi e, soprattutto, come smascherare eventuali oppositori annidati nello sport. Damasco come Bagdad e Berlino, quello che conta per Stange è il risultato, non quello sportivo. Resta da chiedersi a questo punto perché non ci sia la Corea del Nord nel suo curriculum, un passaggio a Pyongyang porterebbe a una sorta di chiusura del cerchio per l'ambasciatore del diavolo. In realtà, la mano longa di Stange è arrivata anche quelle latitudini, dove lavora un uomo di fiducia. È Harald Irmscher, già suo vice in Bielorussia, ma soprattutto altro pezzo da novanta della collezione Stasi. Sembrano storie partorite dal film Oscar Le vite degli altri.

All'atto pratico sono esistenze violate e controllate, scevre dall'effetto cinematografico, spesso sbriciolate quando sport e politica si intersecano sulla rotta di nazioni dove la democrazia è merce rara.

Commenti