La storia della sinistra è piena di condanne a morte

Ruggero Guarini

E se la pena di morte fosse l’ultimo asilo del sacro? L’ultima espressione dell’umana volontà e capacità di prendere il male sul serio? L’ultimo indizio del nostro antico bisogno di onorare il mistero del male riservando alle sue forme estreme un trattamento adeguato all’orrore che esse possono destare?
La parola agli esperti del ramo «cose ultime» (che potrebbero anche essere le «prime»). Quale che sia la loro risposta, nulla comunque vieta di ammirare la fierezza vagamente burbanzosa con cui i meglio cervelli della nostra società politica, non appena se ne offre l’occasione, si affrettano a farci sapere che a loro la pena di morte fa schifo.
Dal nobile raccapriccio che sfoggiano immancabilmente su questo argomento, e che molti di loro, in questi giorni, hanno ostentato con particolare intrepidezza nel condannare la condanna a morte di Saddam, si direbbe che la pena capitale sia un’infamia, una porcheria, una sconcezza assolutamente incompatibile coi loro gusti presenti e passati. Loro naturalmente non dicono «i nostri gusti». Dicono «i nostri principi», «i nostri valori», «i nostri ideali». Ma quale sarebbe il soggetto al quale si riferisce quel «nostri»?.
Si riferisce forse a quei pezzi di sinistra che oggi se la spassano a Palazzo Chigi? Beh, nel loro album di famiglia c’è una montagna di condanne a morte più o meno recenti. L’ultima è datata 19 marzo 2002, quando le nuove Br (ultime schegge di un movimento al quale la nostra gauche istituzionale, nei suoi rari momenti di sincerità, suole riconoscere il titolo di «compagni che sbagliano»), giustiziarono il professor Marco Biagi sulla base di una regolare sentenza emessa da un loro tribunalino speciale. La penultima risale al 20 maggio del ’99, quando un altro collegio giudicante dello stesso tribunale decretò la morte di Massimo D’Antona. Proseguendo il viaggio a ritroso, vengono poi, con l’esecuzione di Aldo Moro in cima, tutte le altre sentenze di morte che il partito armato erogò durante gli anni di piombo. Seguono quindi le tante esecuzioni capitali dell’epopea partigiana. E infine occorrerà registrare la valanga di condanne a morte (al dettaglio e all’ingrosso) emesse per molti decenni, e ancora oggi scroscianti, in tutti i paesi del socialismo reale, nonché apertamente approvate dalle loro agguerrite agenzie insediate nelle nostre istituzioni ufficiali.
O in quelle orgogliose ostensioni di valori, principi e ideali che si suppongono «nostri» e soltanto «nostri» l’aggettivo possessivo intende designare la presente Italia democratica e repubblicana, nonché nata dalla Resistenza? Beh, delle sue origini, a quanto sembra, fanno parte anche le già ricordate esecuzioni partigiane, e in particolare lo show di piazzale Loreto, dove un bel mucchio di condanne a morte fu coronato dal vilipendio collettivo di alcuni cadaveri, compresi quelli del duce e della sua donna.
O quel «nostri» si riferisce all’Italia Una? Beh, ma i suoi primi eroici vagiti non furono forse le migliaia di fucilazioni che scandirono nei primi anni Sessanta la cosiddetta guerra al brigantaggio?
O il riferimento è alla laicissima Europa moderna nella sua totalità? Beh, ma a celebrarne i natali non fu in primo luogo l’attività a pieno regime della ghigliottina?
guarini.

r@virgilio.it

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