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Sulla strada per Quetta anche i cammelli sono «schiavi» della droga

Nella zona desertica tra Iran e Pakistan tante carcasse di cammelli. I trafficanti usano questi animali come «piccioni viaggiatori», li caricano di droga e li lasciano andare soli lungo piste dove l'uomo non osa andare. Alcuni però vengono abbattuti dalla polizia iraniana

Sulla strada per Quetta anche i cammelli sono «schiavi» della droga

dal nostro inviato a Quetta (Pakistan)
Prima che negli ultimi tempi si intensificassero gli scontri tra l'esercito pakistano e i militanti talebani intorno a Peshawar e nello Swat, ed escluso per ovvi motivi il territorio afghano, l'unica area attraversata dalla rotta hippie considerata poco sicura era quella della frontiera tra Iran e Pakistan, sulla strada tra Bam e Quetta. A rendere pericolosa la regione sul fronte iraniano, le forti spinte indipendentiste presenti nell'area, a maggioranza sunnita, che negli ultimi 30 anni hanno tenuto in vita una guerriglia costata la vita a oltre tremila militari iraniani. Ma il difficile presidio del territorio qui ha anche lo scopo di tentare di bloccare la strada alle bande di trafficanti di droga e ai loro carichi, provenienti da Pakistan e Afghanistan e diretti in Europa. Città come Kerman, nel sud-est dell'Iran, sono infatti alle prese con il crescente fenomeno della tossicodipendenza proprio perché, trovandosi sulla rotta del narcotraffico, vengono costantemente rifornite. Un'onta per il regime teocratico, il cui braccio di ferro contro gli stupefacenti al momento è perdente. Ma non va troppo meglio dall'altra parte della frontiera: il Balochistan pakistano non è strettamente sotto controllo del governo di Islamabad. Qui comandano i clan pashtun e baluchi, e non mancano storicamente rivendicazioni indipendentiste, e inoltre la strada verso Quetta costeggia a breve distanza il confine tra Pakistan e Afghanistan. L'ultimo «pericolo», sulla tratta Bam-Quetta, è invece questione di resistenza fisica: il viaggio, spezzato al confine, dura intorno alle 24 ore, e le strade non sono svizzere.
La partenza da Bam è all'alba, quando le palme si accendono di rosso al sorgere del sole. In cinque ore, e un buon numero di controlli ai check point, il bus arriva a Zahedan, città a 90 chilometri dal confine che gode di pessima fama. Qui agli stranieri non è consentito girare senza scorta armata, e se a Bam la misura è prevista solo dopo il tramonto ed è poco applicata, a Zahedan i militari sono meno flessibili. Il problema è che i tempi per arrivare alla frontiera con i soldati al seguito si allungano. Così, appena arrivati alla moderna stazione degli autobus, è meglio mantenere un basso profilo e cercare di saltare al più presto su un taxi condiviso diretto al confine. Gli ultimi chilometri di Iran passano in un'ora scarsa, anche qui si moltiplicano check point e controlli dei passaporti, e il paesaggio fuori è a dir poco brullo. A bordo strada rottami bruciati di camion e macchine, e proprio quando sulla sinistra compare la recinzione che segna la linea di frontiera tra i due Paesi, ecco nella sabbia i cadaveri di tre cammelli, appena oltre l'asfalto, cotti dal sole. «Drug smugglers», spiega l'autista indicandoli. I narcotrafficanti utilizzano i cammelli come «piccioni viaggiatori», mandandoli da soli attraverso il deserto carichi di droga, seguendo una rotta che gli animali già conoscono e rendendo più difficile l'individuazione dei carichi da parte di esercito e polizia. Il taxi passa oltre il paese di Mirjaveh, ultimo centro abitato persiano, e si ferma di fronte all'edificio della dogana. Dentro, due impiegati annoiati accolgono i visitatori in transito. L'unico iraniano è il primo a passare, segue un pakistano, mentre i passaporti italiani richiedono qualche attenzione in più e un po' di curiosità. L'intera questione richiede comunque circa mezz'ora, e dopo una porta di vetro bruno si torna all'aperto. Pochi metri tra sabbia e caldo ed ecco il varco, piuttosto «informale». Un soldato iraniano seduto su una sedia di plastica rossa agita la mano e dice «bye bye», e subito dopo un buffo personaggio si asciuga il sudore con la kefiah ed esclama «welcome in Pakistan». Le formalità all'ingresso nel «Paese dei puri» si sbrigano in un'altra mezz'ora, e contemplano un benvenuto rituale davanti a una tazza di te dal sapore vagamente sabbioso. Ci sono decine di cambiasoldi, visto che la banca è chiusa, e se non si conosce il tasso ufficiale di conversione tra rials e rupie si rischia di essere spennati, ma anche conoscendolo il cambio offerto è tutt'altro che conveniente. Per arrivare a Taftan, microscopico, assolato e polverosissimo villaggio che sembra l'archetipo del paese di frontiera, bastano poche centinaia di metri, e qualcuno per senso di ospitalità offre persino un passaggio gratis su un pick-up. Il paesino è impressionante: tutti uomini, molti afghani, tutti intorno a una teoria di baracche e negozietti che circonda una piazza sterrata, con al centro un recinto dove qualcuno prega, protetto da una tenda di fortuna, inginocchiandosi verso la Mecca. E tra decine di capre, cani e mucche, in uno dei bugigattoli di lamiera e tela c'è una «bus company», come pomposamente annuncia un cartello. Da qui parte il pullman per Quetta, correndo lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan. Una corriera d'altri tempi, che parte alle cinque del pomeriggio e fa le poche centinaia di chilometri di strada in 12-15 ore. «Inshallah», come aggiunge divertito un commerciante di tessuti di Faisalabad che torna da un viaggio per lavoro in Iran.

E l'auspicio devozional-scaramantico ha il suo perché non appena il bus si muove: quasi tutta la strada fino a Quetta è sterrata, e si continua a saltellare per ore e ore, tutta la notte, con le uniche pause nella versione pakistana, e arcaica, degli autogrill: una capanna di fango, un forno tandoori scavato per terra che produce pane per le comitive in viaggio, un piccolo fuoco su cui bollono decine di teiere, perché anche in Pakistan un chay non si nega a nessuno.

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