Roma

Il superpoliziotto: «Hanno cercato di incastrarmi»

Gaetano Pascale racconta la sua storia: «Stavamo per risolvere l’omicidio Frau quando siamo stati messi da parte»

Dieci anni sotto falso nome, infiltrato nei bassifondi della mala organizzata, costretto a pensare come un criminale. A volte peggio, tutto per acciuffare latitanti e criminali di rango. La 38 special sempre sotto al cuscino, il superpoliziotto della squadra mobile romana sottoposto a mobbing, trasferito, riformato e costretto a lasciare l’Italia racconta al Giornale una vita passata fra i banditi. Due promozioni per meriti eccezionali, riconoscimenti da Università statunitensi, Gaetano Pascale, 44 anni, si commuove quando ricorda Frank Serpico. «Incontrare Paco, il poliziotto italo-americano che ha azzerato il sistema di corruzione nel New York Police Department - racconta Pascale - è stato un onore. Serpico, quando ha saputo della mia vicenda, mi ha scritto una e-mail di solidarietà. Mi ha dato la forza per ricominciare. Adesso tengo conferenze di Criminologia, scrivo libri, insegno il mestiere ai colleghi d’oltreoceano». L’appuntamento è in piazza Anco Marzio, la storica piazzetta di Ostia che ha dato il nome all’operazione di polizia che avrebbe dovuto scardinare il narcotraffico sul litorale e sbattere in cella gli assassini di Paolo Frau. Stivali texani ai piedi, jeans e camicia nera smanicata, baffoni stile Charles Bronson, un sigaro toscano fra le mani. «Sull’omicidio Frau avevo una teoria - racconta - e lo scrivo nelle informative. Il modus operandi era inconfondibile. Non si ammazza un uomo potente per un affare da poco. Tantomeno per vecchi rancori fra i sopravvissuti della Magliana. L’omicidio matura nel corso di una guerra durissima per il controllo del traffico internazionale di droga. Bisognava andare all’altro capo del mondo, dove parte la cocaina diretta all’aeroporto di Fiumicino e sulla costa. Bisognava perdere mesi per rintracciare i collegamenti con i cartelli nostrani. Evidentemente le mie teorie erano in contrasto con alcuni dirigenti ansiosi di concludere l’operazione. E così, un brutto giorno, mi ritrovo indagato per un’auto che mi era stata rubata in un parcheggio. Nella denuncia il collega scrive un numero sbagliato, confondendosi con l’orario. La questione viene archiviata. Mentre mi stavo laureando a Bologna, poi, mi accusano di aver falsificato un permesso studio. Insomma, qualcuno cerca di incastrami. Arriva il trasferimento al commissariato Colombo. Sul foglio c’è scritto che mi sarei dovuto presentare in divisa, vale a dire farmi saltare la copertura. In quel periodo ero in malattia, mi sottopongo a un delicato intervento a un orecchio. Dimesso e dichiarato guarito dal policlinico Umberto I, per i medici del Celio sono riformato, terza categoria. In pratica dovrei essere su una sedia a rotelle. Non mi restava che andar via». Il suo «Tecniche di polizia giudiziaria», scritto con Pasquale Striano della Dia di Roma, è sul tavolo di migliaia di agenti. Ma è su «Le condizioni di stress di un agente sotto copertura» che i due investigatori danno il meglio. «In Brasile, quando ho arrestato Vincenzo “Chicco” Pompei ricercato da tre anni, i poliziotti del posto mi hanno sparato scambiandomi per un rapinatore. Sono vivo per miracolo. Per acciuffare Igor Simmi (altro latitante di Ostia, ndr) e risolvere il caso Frau sarei dovuto andato in Costa Rica. Da lì partono i carichi di coca liquida diretti a Roma.

Il pm Iasillo aveva già firmato le deleghe, stavo per partire con i colleghi della polaria quando, inspiegabilmente, siamo stati messi da parte».

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