Controstorie

Dopo il sushi arriva il sake Tokyo conquista l'Europa

Gran Bretagna e Italia i maggiori importatori del Continente. E fioriscono le scuole per sommelier

Lucia Galli

Lo chiamano vino di riso. Eppure fermenta, semmai, come una birra. Anche se tutti lo abbiamo creduto a lungo un distillato da bere caldo a fine pasto. È invece solo, gustosamente, sake. Ed è il più bell'equivoco liquido con cui il Sol Levante ci sta stregando, dopo averci conquistato, prima a piccoli morsi di sushi, poi cotti a puntino con il ramen e un nonnulla di wasabi. Ora siamo pronti per il sake: nome generico significa alcol, il vero nome nipponico è shu e va gustato a tutto pasto, alla stessa temperatura del piatto che si serve. Con buona pace dei cliché a cui siamo abituati: colpa dell'o-choko, la tazzina in cui si degusta, che a noi occidentali rievoca, irrimediabilmente, uno shot da fine pasto: «Nella tradizione lo versano agli uomini le donne, - spiega Kaori ma con il kimono, bicchieri o calici, sarebbero stati più complicati da gestire».

Il sake ha circa 15 gradi come un corposo Amarone, ma può sfidare il brio delle bollicine di un Franciacorta e non sfigurare in un cocktail della Milano da bere. Masticare per credere, però: ci tiene a precisarlo Kaori. Il miglior modo per berlo, è mangiarlo: «Solo così esalterà i sapori senza coprirli». Diluito, non pastorizzato, invecchiato, novello o frizzante. Si finisce per imparare un po' di giapponese, studiando le varie fogge del junmai, il sake base, senza alcol aggiunto. Complicato? No, ma antico sì. Come quel piccolo mondo delle sakagura, le brewery del Sol Levante dove il sake si produce come una volta, un mese per il procedimento, sei mesi ad invecchiare: «Lo facciamo ancora d'inverno perché la fermentazione richiede il freddo e per ricordare i nostri nonni che d'inverno, fermo il lavoro nei campi, si impegnavano così».

E allora, prima si bramava il riso, ovvero lo si «pelava» a diversi livelli, per avere un chicco più o meno levigato. «Questo processo conferisce i diversi aromi alla bevanda, compreso quell'umami, il quinto sapore codificato solo nel secolo scorso per spiegare ciò che non è né dolce né aspro né salato né amaro»», spiega Kaori. Poi, certamente, ci sono i lieviti, le muffe, l'alcol eventualmente aggiunti. Ma soprattutto l'acqua. Pare strano, ma conta all'80%. Per questo lei è rimasta a Yamagata, fra i monti, nel business di famiglia. A 300 km a nord di Tokyo, non lontano da Sendai, nevica come nelle fiabe d'inverno e c'è un'acqua purissima che fa di questa zona la «sake valley» più prestigiosa del Giappone: su 3mila produttori, quasi 60 sono concentrati qui dove, nel 2016, è arrivata anche la GI - geographical indication. Mentre i giapponesi ne bevono sempre meno, l'export di sake ha fatto segnare un +19% nel 2017. Dopo Stati Uniti, Corea e Cina, c'è l'Europa dove l'Italia è ormai seconda solo al Regno Unito, superate, ormai Francia e Germania. «Effetto Expo», lo definisce Lorenzo Ferraboschi, responsabile e delegato italiano della SSA - Sake sommelier Association - e presidente di Sake Company, oggi fra i primi importatori italiani del «nettare» giapponese. Allo scoccare del nuovo millennio lui partì per il Giappone, un futuro come interior designer in tasca. Dopo 10 anni, cambia tutto: torna in Italia, con moglie nipponica, figlio bilingue e un grande amore per il sake. Da allora la cassa che gli spediva periodicamente la suocera non è bastata più. «Le mode nel food attecchiscono prima a Londra, 5 anni dopo a Parigi e, dopo altri 5 anni, da noi spiega Ferraboschi -, ma l'Expo ha messo il turbo ai desideri» e oggi la SSA italiana ha già diplomato, dal 2015, oltre 250 sake sommelier con corsi a Milano, nel Lazio e perfino in Val d'Aosta. In ottobre, a Milano, è atteso Koseki il sensei (maestro, ndr) per antonomasia. Ai corsi arrivano un po' tutti, persone comuni e del mestiere perché nei menù, non solo dei ristoranti giapponesi, è sempre più di moda avere una carta dei sake.

«Il Giappone? L'ho capito più col sake e con i romanzi di Murakami che non sulle guide o all'università», spiega Daniela Bertozzi, maitre e sommelier del Podere san Faustino, fuori Fidenza, fra i primi locali in Italia a credere nel sake coniugato con la cucina del territorio. «Del Giappone amo la mentalità diversa: noi diamo valore all'individualità, ci piace chi è originale e si distingue; per loro essere vincenti significa essere uguali agli altri, stare nel gruppo: il sake è così, non fa la primadonna, esalta i sapori senza prendersi la scena e rende tutto più buono». E poi risolve un sacco di problemi di abbinamenti: con uova e caviale non sai mai che cosa proporre, il sake è perfetto. In Brianza una catena di hamburgherie lo abbina alle proposte vegetariane, sul lago di Pusiano un locale lo propone con il pesce persico. Semplice farsi conquistare, facile come bere un bicchiere d'acqua. Anzi di sake.

E allora, kanpai, salute.

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