Politica

"La Tangentopoli della sinistra è solo agli inizi: state a vedere..."

Parla Giancarlo Mazzuca, il giornalista scelto dal Pdl per diventare sindaco di Bologna: "Dalle lenzuola a scandalo di regime. Ora finalmente la procura indaga sull'incesto fra politica, economia e giunte rosse"

"La Tangentopoli della sinistra è solo agli inizi: state a vedere..."

Era, come adesso, la fine di gennaio. Anno 1994. Indro Montanelli aveva lasciato da poco la direzione del Giornale. Seduto a fianco del fido autista Maimone, stava andando a batter cassa da Luciano Benetton per La Voce. Sul sedile posteriore, Giancarlo Mazzuca, il suo vicedirettore. Il quale, per ingannare il tempo, azzardò una domanda sul climaterio: «Direttore, come ci si sente dopo aver raggiunto la pace dei sensi?». Il Grande Vecchio, ormai prossimo a compiere 85 anni, si girò di scatto e lo fulminò con un’occhiataccia: «Oh, bischero, parla per te!». Confessa oggi Mazzuca: «Avevo messo in quel quotidiano una parte della mia liquidazione, 25 milioni di lire. Un giorno esaminai il libro dei soci e scoprii che ero uno dei principali azionisti. Capii che l’avventura sarebbe durata poco. Ma non me ne pento. Se c’è una cosa, anzi due, che ho imparato da Montanelli è andare controcorrente e tentare le sfide impossibili. La scalata all’Everest rosso è una di queste».

Fino alle 13 di giovedì, quando l’ho incontrato davanti a un piatto di tortellini nella trattoria di Marano, sperduta località in mezzo alla campagna bolognese, l’obiettivo altimetrico di Mazzuca era impervio: candidato governatore del centrodestra per la Regione Emilia Romagna, sfidante del sempiterno Vasco Errani alle elezioni del 27-28 marzo. Ieri una sorprendente decisione maturata nella notte ha reso l’arrampicata meno disagevole: candidato sindaco di Bologna. Che resta pur sempre un bel K2, nonostante sia già stato espugnato in passato da Giorgio Guazzaloca. Eppure a Mazzuca anche l’Everest rosso pare oggi più a portata di mano: «Secondo me qui è appena cominciata la Tangentopoli della sinistra. Ne vedremo delle belle. Da squallida storia di lenzuola e di rimborsi spese allegri, il Cinziagate che ha portato alle dimissioni del sindaco Flavio Delbono si allargherà a macchia d’olio fino a diventare uno scandalo di regime. E farà altre vittime illustri, questo è poco ma sicuro».

Non si può dire che Mazzuca, 61 anni, deputato del Pdl, padre medico di origini calabresi con ascendenze greco-albanesi, madre docente di francese, giornalista dal 1974, già direttore del Quotidiano Nazionale, del Giorno e del Resto del Carlino, sposato con un’insegnante ora in pensione, un figlio, abbia il fisico di un Messner, se non altro per via dei 115 chili di peso. Nelle redazioni quelli come lui si chiamano «culi di pietra»: sempre alla scrivania a far titoli e a licenziare pagine. Ma ha dalla sua un’attitudine che a Bologna conta parecchio: siede volentieri anche a tavola. Come dimostra il surreale incidente accaduto in occasione della visita di Giorgio Napolitano al Carlino: gli agenti dell’antiterrorismo, che erano andati a ispezionare la sede di via Enrico Mattei il giorno prima dell’arrivo del presidente della Repubblica, dovettero irrompere nell’ufficio di Mazzuca, trascinati dai cani poliziotto che abbaiavano furiosamente, per poi scoprire che dentro un frigorifero il direttore custodiva gelosamente un tartufo bianco di Acqualagna. Prima di approdare alla politica, Mazzuca aveva asceso con onore gli Appennini del giornalismo, sulle orme del fratello Alberto («però lui è molto più bravo di me a scrivere»).

Esordio a 16 anni alla redazione del Carlino di Forlì, sua città natale: «Sostituzioni estive. Mi davano 500 lire la mattina e 500 il pomeriggio. Il capo era Duccio Lucarini, modenese, allievo di Enzo Biagi». Assunzione a Bologna dopo la laurea in scienze politiche e un’iniziale sbandata: «Pensavo di fare il diplomatico, vinsi anche una borsa di studio del ministero degli Esteri alla Johns Hopkins University. E invece mi ritrovai allo sport con Italo Cucci come capo e Marino Bartoletti come compagno di banco». Assunzione al Corriere della Sera nel 1980: «Mi chiamò Franco Di Bella, che era stato direttore del Carlino». Caporedattore dell’economia al Giorno. Vicedirettore di Fortune, edizione italiana della rivista pubblicata da Time. Il sodalizio con Montanelli: «Mi portò al Giornale nel 1990 come capo dell’economia». Uno scoop mondiale che i colleghi ancora gli invidiano: «Ero inviato a Tokyo. A cena da un’amica, moglie di un banchiere, vidi una foto incorniciata: un ritratto di famiglia con monsignor Paul Marcinkus, il presidente dello Ior invischiato nel crac del Banco Ambrosiano, che aveva da poco lasciato l’incarico. Grazie ai buoni uffici di quest’amica, accettò d’incontrarmi. Credevo di dover andare a Cicero, la città del prelato di origini lituane. Invece s’era ritirato a Sun City, una località di neanche 40.000 abitanti vicino a Phoenix, in Arizona. Dove, benché fosse arcivescovo, faceva il coadiutore a San Clemente, una parrocchia di immigrati messicani. Mi raccontò che Papa Wojtyla lo aveva sempre protetto perché lo Ior aveva finanziato Solidarnosc. Mi portò in un ristorante di pesce e poi mi riaccompagnò in albergo con la sua utilitaria, cantando a squarciagola Arrivederci Roma».
Perché dice che a Bologna ne vedremo delle belle?
«Perché la Procura s’è messa finalmente a fare il suo mestiere e sta indagando a 360 gradi sulle amministrazioni rosse. Lo dimostra il fatto che è stato interrogato per otto ore il presidente del potentissimo Cup 2000, nato nel 1996 per iniziativa delle Aziende sanitarie e degli enti locali bolognesi, che è l’impresa leader in Italia nella realizzazione dei centri unificati di prenotazione per gli ospedali».
Prima la Procura non indagava?
«Io guardo ai fatti. Gli interrogativi sull’operato di Delbono in Regione furono sollevati fin dal giugno 2009 dal candidato sindaco del centrodestra, Alfredo Cazzola. Ma la magistratura chiuse la denuncia in un cassetto. A fine anno è arrivato un nuovo procuratore capo, Roberto Alfonso, che ha tirato fuori il fascicolo e ha voluto vederci chiaro. Sono convinto che si farà finalmente piena luce sull’intreccio incestuoso fra politica, e per politica intendo Pci-Pds-Ds-Pd, economia, e per economia intendo Coop rosse, e amministrazioni pubbliche, davanti al quale la magistratura è rimasta per lungo tempo spettatrice silenziosa. Ora che la diga ha ceduto, verrà fuori di tutto. E Vasco Errani non potrà certo chiamarsi fuori».
Errani che c’entra? Non è indagato.
«Delbono i pasticci li ha combinati come vice di Errani e l’amante stava sul libro paga della Regione. Quand’ero al Carlino, se un mio vicedirettore sbagliava, la responsabilità ricadeva su di me. Ora Errani si dichiara parte lesa, vittima dei maneggi di Delbono. Mi chiedo: allora perché subito dopo la denuncia di Cazzola non avviò un’indagine interna per accertare che cosa avesse combinato il suo vice? Sergio Cofferati, che è stato uno sbiadito sindaco di Bologna ma provvisto di grande onestà intellettuale, s’è subito chiesto se questa sia una storiaccia di amori clandestini pagati con soldi pubblici o l’inizio della fine di un sistema».
Lei che cosa risponde?
«Buona la seconda. È la fine del modello Via Emilia, del partito che ti sorvegliava dalla culla alla tomba, del potere esercitato per forza d’inerzia e mantenuto con clientelismi e ricatti. Ogni giorno incontro qualche imprenditore che mi dice: “Sono con lei, la appoggio, ma non posso metterci la faccia, perché io con questi debbo lavorarci”. Nessuno li ha mai controllati».
È il giornalismo il primo cane da guardia del potere. Lei dirigeva il più importante quotidiano della regione o sbaglio?
«Vada a sfogliarsi le raccolte. O vada a leggersi il mio libro I faraoni, scritto a quattro mani con Aldo Forbice e pubblicato da Piemme l’anno scorso».
Il modello Via Emilia era percepito come un esempio di gestione virtuosa della cosa pubblica.
«Sì, buonanotte. Guardiamo le statistiche della Regione. Il numero delle leggi approvate è diminuito in un decennio da 49 a 29. Nel contempo è stato modificato lo statuto per aumentare il numero dei consiglieri da 50 a 67. Si vede che per lavorare poco bisogna essere in molti. Costo netto dei 17 consiglieri in più: 2,5 milioni di euro l’anno. Ci aggiunga le spese per segretarie, collaboratori e portaborse. Ma siccome lo stuolo dei sottopanza non basta mai, ecco le consulenze esterne: dai 400.000 euro del 2008 si è passati ai 560.000 stanziati nel 2009. Le spese per cerimoniale, relazioni pubbliche e comunicazione sono lievitate da 1,975 milioni di euro a 2,256. I contributi a pioggia elargiti alle associazioni sono passati in un anno da 150.000 a 250.000 euro. A Bologna la giunta Errani è riuscita a finanziare perfino l’associazione El Ouali che ha organizzato una Sahara marathon e il gruppo La Pillola che ha promosso l’iniziativa L’école del rusco, la scuola della spazzatura, per tradurre dal francese e dal bolognese. Vogliamo parlare di sanità?».
Parliamone.
«Errani è arrivato a secretare nomi e stipendi dei direttori e dei manager ospedalieri. La sanità oggi si mangia oltre il 70% del bilancio regionale. La magistratura ha recapitato avvisi di garanzia per un buco da 60 milioni all’Asl di Forlì e ha indagato una decina di persone per l’ospedale di Cona, provincia di Ferrara, i cui lavori, cominciati nel 1990, non sono ancora finiti. Solo adesso la Regione manda le ispezioni per capire come mai dopo 20 anni non è stato ultimato».
Che slogan elettorale ha scelto?
«Si può fare di più».
Ma non era una canzone di Gianni Morandi?
«Quella s’intitolava Si può dare di più. Assonanza voluta. Ho incontrato Morandi allo stadio Dall’Ara, siamo entrambi tifosissimi del Bologna. “Mi dispiace che stai col centrodestra”, mi ha rimproverato. “Sei una persona perbene, ti avrei votato volentieri. Ma io sono sempre stato di sinistra”. Esiste la possibilità del voto disgiunto, gli ho risposto».
Non è da kamikaze una sfida elettorale così?
«In questo sono molto romagnolo».
Come Benito Mussolini?
«Come Pietro Maroncelli e Francesco Baracca: mi batto con sprezzo del pericolo. Avevo proposto a Errani una conferenza stampa comune per l’avvio della campagna elettorale. Mi ha risposto che non se la sentiva. Chissà, qualcuno dei suoi avrà avuto paura che tirassi fuori le 16 missioni del suo vice Delbono in Bulgaria, i viaggi a Pechino, New York, Gerusalemme, Parigi e Praga, la trasferta in Messico e il soggiorno in un villaggio vacanze di Santo Domingo in compagnia della segretaria-fidanzata, a spese dei contribuenti. O l’escursione dello stesso Errani nel Saharawi per inaugurare una scuola dedicata a un sindacalista della Cgil».
Il professor Gianfranco Pasquino, politologo di sinistra, dice che Errani conosceva benissimo «gli affari di Delbono con le donne», come tutti a Bologna.
«Tutti non so, molti di sicuro. Ma dell’uso disinvolto dei soldi pubblici s’è saputo solo dopo che Delbono, finita la love story, ha declassato Cinzia Cracchi da segretaria a telefonista».
Con quali argomenti spera di convincere gli ex comunisti a votare per lei?
«Nonostante non sia più un ragazzo, posso rappresentare il nuovo di cui tutti hanno sete dopo mezzo secolo di monolitismo».
Il suo primo atto in caso d’elezione?
«Andrò in pellegrinaggio al santuario della Madonna di San Luca per grazia ricevuta».
Marisa Monti Riffeser, che è stata la sua editrice, del sindaco Cofferati mi disse: «Non combina niente. Una cosa indegna. Bologna è invivibile. Non porto fuori nemmeno Bella, la mia barboncina, tanto sono luridi i portici». Con Delbono è cambiato qualcosa?
«I sette mesi di Delbono hanno rivalutato i cinque anni di Cofferati, che pure ha contribuito attivamente al declino di Bologna e che bastonavo dalle colonne del Carlino persino per la sua blasfema abitudine di mangiare i tortellini in brodo versandoci dentro il vino. Manco i graffiti dai muri ha fatto togliere Delbono, è rimasto immobile».
Chi è stato il miglior sindaco di Bologna?
«Giuseppe Dozza. Un Peppone che è morto povero».
La città è ancora «sazia e disperata», come la definì l’allora arcivescovo Giacomo Biffi?
«È disperata e non è più sazia. L’azionista di un allevamento di polli mi ha detto: “Dal luglio scorso sono tornato ad assumere italiani. Oggi su 1.200 dipendenti, la metà sono emiliani e l’altra metà di 12 etnie diverse”. I bolognesi devono tornare a fare i lavori che prima disprezzavano e gli immigrati restano senza posto. Stiamo rischiando una guerra tra poveri».
Lei è presidente della giuria che assegna il premio Marco Biagi. Come pensa che voterà la vedova del professore bolognese assassinato dalle nuove Br?
«Come voterà la signora Marina Orlandi non lo so. Ma tra i miei sostenitori c’è Giulio Venturi, un giovane nipote del giuslavorista. Avevo già deciso di inserirlo nel mio listino per le regionali».
Mi ricordo quando lei andava in giro per l’Italia con Montanelli a raccogliere soldi per La Voce, tenendo sotto braccio le prime pagine di prova da mostrare ai potenziali azionisti. Silvio Berlusconi non le andava bene come editore, però oggi le va bene come leader del Pdl.

«Montanelli era il mio direttore. Per un giornalista il direttore viene prima dell’editore. Quando mi chiese di seguirlo alla Voce, obbedii di slancio. Berlusconi è stato un editore leale. Come imprenditore avrebbe potuto condizionarmi, visto che ero il capo dell’economia. Invece non s’intromise mai. Anzi, rammento che una volta andai a seguire i lavori di una convention di Publitalia e lui, vedendomi entrare, invitò i suoi agenti pubblicitari ad applaudirmi: “Abbiamo qui il direttore dell’economia del Giornale”. Mi aveva promosso sul campo, già allora».
Che cosa le dispiace maggiormente nel cambio da candidato governatore a candidato sindaco?
«Di non poter più sfidare Errani. In fin dei conti dispiace anche a lui: ci ha tenuto a farmelo sapere». stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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