Controcultura

Telemaco Signorini I turbamenti alienanti della vita quotidiana

L'artista fiorentino appare rassicurante Invece è capace di opere che disturbano

Telemaco Signorini I turbamenti alienanti della vita quotidiana

L'immagine prevalente che noi abbiamo di Telemaco Signorini (Firenze, 1835-1901) è di un pittore di vedute rurali, di paesaggi elegiaci di grande precisione e taglio visivo.

Avviato alla pittura dal padre Giovanni (1808-1862), studiò all'Accademia di Firenze per poi applicarsi dal 1854 con Odoardo Borrani alla pittura dal vero; in quegli stessi anni, fu nel gruppo di artisti che si riunivano al caffè Michelangelo. Dopo aver partecipato come garibaldino alla campagna del 1859, riprese a dipingere dal vero con Vincenzo Cabianca e Cristiano Banti a La Spezia; di lì a Parigi dove avvicinò Jean-Baptiste Camille Corot e i pittori della scuola di Barbizon.

Tornato in Italia, strinse amicizia nel 1862 con Diego Martelli (con il quale nel 1867 fondò il Gazzettino delle arti) e si unì al gruppo dei pittori di Piagentina. Fu tra i più rappresentativi pittori macchiaioli, e, dal 1868, alternò lunghi soggiorni in Liguria e in Toscana con viaggi in Francia, in Scozia e in Inghilterra dove ebbe notevole successo. Autore di luminose e terse impressioni urbane, nelle opere più tarde, spesso di piccolo formato, virò verso tonalità più atmosferiche e intimistiche. Nel 1893 raccolse e pubblicò i suoi notevoli pensieri e ricordi in Caricaturisti e caricaturati al Caffè Michelangelo, 1849-66.

In un sorprendente dipinto come L'alzaia, del 1864, lo sforzo dei braccianti che trascinano la chiatta (che non si vede) lungo l'argine dell'Arno ha lo stesso ritmo delle composizioni di Piero della Francesca e parte probabilmente da una riflessione sull'Allegoria dei ciechi di Bruegel. La denuncia sociale, tanto vantata, passa in secondo piano per il ritmo, la luce, le case basse, le ombre. L'armonia compositiva del dipinto appare un miracolo. Ma è una condizione interiore, un abito mentale come si vede anche nella donna che in Acquaiole a La Spezia (1862) incede lungo un sentiero davanti al mare. Che in alcuni momenti Signorini vada oltre ogni codice del suo tempo, con tagli sorprendenti, lo mostra la strada di Londra con la scritta «Rob Roy» del dipinto Leith (1881) nel quale troviamo un'intuizione degna dei momenti migliori del primo Balthus, quello de La rue. Signorini ha un tempo reale, un eterno presente, che avevano anche altri pittori dell'Ottocento, attraversato dal limite fisico dell'aneddoto; ma spesso Signorini riesce a evitarlo, trasferendo l'illustrazione del momento in una dimensione metafisica (vedi Piazzetta di Settignano, del 1880). Ricercato è questo effetto anche nella celeberrima Visita del 1868 di Silvestro Lega, dove tutto concorrerebbe a trattenerci sul dettaglio del selciato, delle tettoie, dell'intonaco, in un momento storico che non potrebbe essere più preciso e definito. Ma il ritmo compositivo è così essenziale da farci risalire a Giotto e a Piero della Francesca. A quest'ultimo in particolare sembra risalire Telemaco Signorini nei suoi momenti più puri come Muro bianco, del 1866.

Ma anche per un artista così composto e infallibile, e sempre estraneo al pittoresco, un dipinto come la Sala delle agitate nell'ospedale di San Bonifacio del 1865 appare un'opera imprevedibile e sorprendente. Il pittore, sempre così distante, sembra preso da un'emozione e da un turbamento; e, nel dare tanto spazio alla definizione dell'ambiente come un bianco cubo alienante, accentua l'inutile agitarsi, come l'inerte abbandono delle malate oppresse dalla loro malinconia. La figura solitaria al centro, in controluce, non è protagonista ma emblema di un'alienazione non individuale come una prigionia della mente in corpi devastati. Signorini indica la tragedia della solitudine anche nella comunità forzata nell'ospedale. Ci comunica disperazione e pietà e, nella concentrazione del dolore del gruppo delle agitate, egli esprime la stessa tragedia dell'Urlo di Munch. Dipinti come questo scavalcano la stessa poetica dell'autore, capace di struggenti momenti di intimismo che si fermano alla condizione della malinconia, non del terrore, non dell'irrimediabile angoscia. Penso al poeticissimo Mattino di settembre a Settignano, del 1891, nel quale è per altro anticipata l'intera opera di Maurice Utrillo.

Nessuno come Signorini esprime meglio la solitudine di un giorno qualunque e l'inutilità di ogni azione umana.

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