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Tensioni Roma-Berlino La partita con i tedeschi si gioca anche al cinema

In Germania bocciato dai giornali il film dei Taviani vincitore alla Berlinale. È l’ultimo capitolo di una sfida condita da imbarazzanti luoghi comuni. Capiscono le nostre pellicole solo se c'è la mafia...

Tensioni Roma-Berlino La partita con i tedeschi  si gioca anche al cinema

Rieccoli. I tedeschi, che hanno sempre la faccia corazzata dei panzer, vengono avanti e prendono a cannonate pure il nostro cinema. I fratelli Taviani non si meritavano la vittoria al festival di Berlino. Per la razza teutonica noi italiani siamo sempre gli ultimi della classe, o i penultimi visto che al banco laggiù ora ci sono, fissi, i greci. Oppure, se proprio vogliamo essere ottimisti, noi siamo trattati come outsider: qualche volta sbuchiamo fuori e piazziamo il colpo, tipo il calcistico e leggendario 4 a 3 del 1970 che è servito almeno a risparmiarci come nazione il lettino dello psicoanalista. Però anche quel giorno loro, i panzer, erano convinti di farci fuori. Noi eravamo e siamo più deboli, più destrutturati, più casinisti, più in tutti i difetti e meno in tutte le virtù.

on c’è niente da fare. Loro si concepiscono così e ci concepiscono in questo modo, come adulti alle prese con adolescenti da mettere in riga. Ma sì, è una vita che Berlino ci mette in riga. La Merkel e Sarkozy che si sorridono in conferenza stampa come Cip e Cip, ridacchiando sull’affidabilità di Berlusconi, la dicono lunga sul complesso di superiorità che Berlino, e con Berlino Parigi, vanta nei nostri confronti. Del resto è stata la Merkel, se è vera la ricostruzione del Wall Street Journal, a telefonare a Napolitano per togliere di mezzo il Cavaliere nel bel mezzo della crisi dell’euro, come si fa scomparire dalla scena un burattino. Poco importa naturalmente che la crisi sia stata innescata dalla colpevole sottovalutazione tedesca della crisi greca, poco importa che la baracca europea non sia attrezzata per tenere alla larga il ciclone finanziario anche per via della taccagneria, anzi della piccineria di marca germanica. Poco importa che proprio la Germania, che sta sempre in cattedra, abbia colpevolmente sfondato a suo tempo, e sempre in coppia con la primadonna francese, i parametri sul deficit di Maastricht, dando il cattivo esempio. Poco importa. Anzi, non importa.

Loro sono i professori. Noi siamo perennemente dietro la lavagna. Del resto la cifra dell’umiliazione è quello spread che misura la distanza fra l’ordine e il disordine, fra la perfezione e la caciara, fra la geometrica potenza e la disordinata inventiva. Il cliché si ripete sempre, come il moto perpetuo. La Merkel, che sbagliato due presidenti in due anni, due capi dello Stato costretti a dimettersi il primo per le gaffe sull’Afghanistan e il secondo per un frullato di vacanze facili, benefit altrettanto allegri e arroganza fuori controllo, ha avuto la faccia tosta di entrare a piedi uniti nelle cose italiane peggio di uno stopper e di fischiare come un arbitro allo stadio.
E Der Spiegel ha infierito come e più di Maramaldo dopo la tragedia della Concordia; sul sito del settimanale è uscito un pezzo che era un colpo da ko, con un punto di domanda che suonava come uno sberleffo: «E vi sorprende che Schettino fosse italiano?». No, a Berlino non si sono sorpresi. Schettino è il prototipo del nostro connazionale: volubile, cialtrone, parolaio e pure codardo. Un’abbuffata di luoghi comuni che vengono da lontano: dice niente la storica copertina del revolver appoggiato su un piatto di spaghetti? Sì, siamo sempre il Paese della pizza e del mandolino e del Viaggio in Italia di Goethe: un Paese meraviglioso, a parte gli italiani. E se Roma si lamenta perché è stata lasciata sola a sostenere il peso dell’immigrazione a Lampedusa, la porta meridionale dell’Europa, loro rispondono che hanno sostenuto da soli, come Sisifo, il peso della riunificazione con l’altra Germania che era rimasta sotto il tallone del comunismo.

È un duello che viaggia nei secoli, ma i tedeschi sono convinti di averlo già vinto una volta per tutte. Goethe, Kant, Beethoven. Certo, si potrebbe replicare con Dante, Petrarca, Galileo, Rossini, ma non si riuscirebbe a intaccare quel tratto tutto muscoli del carattere tedesco. Non c’è da meravigliarsi che se la prendano anche con i Taviani. Quarant’anni fa, in tempi di magra sportiva, noi faticavamo come minatori per raggranellare qualche oro alle Olimpiadi, magari ricorrendo alle magie acquatiche di un Dibiasi; intanto le loro nuotatrici, quelle dell’Est anzitutto, sfornavano medaglie con ritmi da catena di montaggio. Il medagliere era lo specchio in ci riflettersi, come oggi lo spread. Nella testa di molti tedeschi, siamo rimasti quelli che fanno quello che possono, come ragazzi disagiati, sempre indietro rispetto alla loro laboriosità. Vale per lo sport, per la politica, per l’economia e del resto è la locomotiva tedesca a guidare l’Europa.

Loro hanno i grandi gruppi, anche se noi abbiamo le piccole imprese che fanno miracoli e fanno girare il Paese e sono capaci di exploit strabilianti. Così la contesa si riaccende.

È una storia che si ripete e che ogni tanto deflagra se è buona quella lettura per cui la storia dell’Europa degli ultimi 200 anni è il tentativo della Germania di affermare la propria egemonia, il suo gonfiarsi come la rana della favola, fino a scoppiare per la sua voracità.

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