Cultura e Spettacoli

Terremoto di Messina, il film mai fatto

Tra i progetti vagheggiati nella mia lunga carriera di cineasta, quello di un film sul terremoto di Messina resta il più ambito e si distingue per non essere stato mai realizzato. Il soggetto progettato era in parte inventato ma verosimile, in parte con episodi tratti da una vasta documentazione esauriente e puntuale, dovuta soprattutto alla cura di Francesco Mercadante in Il terremoto di Messina. Corrispondenze, testimonianze e polemiche (Edizioni dell’Ateneo, 1961).
Erano gli anni Sessanta e risorgevano, in parte inavvertiti, i presentimenti di soluzioni apocalittiche dei problemi che si erano affastellati nel dopoguerra. Avevo concepito il soggetto dell’opera cinematografica come un conto alla rovescia di un mondo che correva senza saperlo verso la catastrofe. L’inizio del film era fissato alle 5h 20m del 27 dicembre del 1908; un cartello annunciava che ventiquattro ore dopo un terremoto avrebbe distrutto la città di Messina e sterminato decine e decine di migliaia dei suoi abitanti. Seguivano sette storie separate, progetti di vita affrontati da personaggi ignari dell’appuntamento con la sorte che avrebbe rimescolato le carte in un modo del tutto imprevedibile. Lo spettatore, tenuto al corrente del passare del tempo scandito a tratti su un quadrante in sovrimpressione, avrebbe seguito con l’animo sospeso lo svolgersi degli avvenimenti condizionati dal fato, esterno ai propositi, ai desideri, alle virtù e ai vizi dei presunti protagonisti. Una sorta insomma di tragedia eschilea, che, forse, a causa della sua velleitaria ambizione, meritò di restare incompiuta.
Eppure, sul piano pratico, alcune premesse erano state superate: un produttore francese - Deutschemeister - si associò fattivamente all’attivazione del progetto e mi affiancò, nella elaborazione della parte letteraria, uno scrittore di sua fiducia di nome Pichon. Antonio Margheriti che, con lo pseudonimo di Anthony Dawson doveva acquistare fama internazionale di artigiano degli effetti speciali prima che il progresso tecnologico li rendesse più facili, girò intere sequenze di scene catastrofiche. Pareva inoltre possibile, fin dai primi contatti, la partecipazione dei sovietici che avrebbero ricostruito sulle rive del Mar Nero la Palazzata a Mare, vanto della Messina prima del terremoto e avrebbero persino messo a disposizione alcune navi della marina militare. Una squadra, infatti, della flotta imperiale russa fornì quel 28 dicembre del 1908 i primi generosi soccorsi, avendo invertito sollecitamente la rotta mentre era diretta ad Augusta.
Poi, come capita ai progetti ideali privi dei mezzi materiali sufficienti, gli entusiasmi iniziali furono mortificati dai fatti; restò in me l’illusione di aver rinunciato al film più bello della mia carriera, che, a causa della sua inesistenza, si è posto al riparo di ogni controprova e di ogni critica...
L’esperienza dell’ecatombe aveva contribuito a suggerire ai terremotati quella della ricostruzione. Messina che in pochi anni trasforma le sue case e chiese di legno in costruzioni di cemento armato, così come è fedelmente rappresentato in La città e la selva di Guido Ghersi, costituisce l’epopea silenziosa che fa parte della scheda genetica di molti messinesi della generazione di poco anteriore alla mia.
Al fervore del ritorno ostinato sul luogo ad alto rischio, corrispose una vivacità culturale che rese la città partecipe di vasti orizzonti. Maestri famosi si affacciarono nelle scuole e collaborarono con gli ingegni locali a preparare i favolosi anni Trenta. Salvatore Pugliatti, Giorgio La Pira, Salvatore Quasimodo furono considerati i tre moschettieri dello spirito, con le loro convergenze e con le loro divergenze sul piano dialettico. A loro, altri si aggiunsero a tener vivi i fermenti del Novecento europeo; il futurismo che si era proposto di divulgare il suo manifesto in Sicilia proprio nei giorni del terremoto, vi tornò dopo con forme più propriamente originali; e la cultura grecolatina vi trovò interpreti agguerriti e sensibili.
Un punto di costante riferimento restano per me la figura e l’insegnamento di Salvatore Pugliatti, sebbene non fui mai suo allievo diretto. Era lo spirito più eclettico che io abbia mai incontrato: giurista, musicofilo, critico letterario e d’arte, saggista e, soprattutto, infaticabile maestro. Lo considerai per sempre il consapevole custode della memoria. E fu per questo che quando, assillato da un impulso ineffabile, mi trovai col pretesto del film, a rovistare nelle macerie della mia città - come a dire della mia coscienza, preda della nevrosi di angoscia comune alle genti dello Stretto - che mi rivolsi a lui per informazioni e orientamenti.
Pugliatti mi illuminò con il racconto di innumerevoli episodi che ingigantirono l’imbarazzo della scelta di quelli da utilizzare sullo schermo; e mi procurò, con il concorso di suo cugino Giordano Corsi, una vastissima documentazione fotografica, da cui risultava il film come già figurativamente realizzato, grazie alla suggestione della scenografia cinematografica capace di evocare anche i castelli in aria attraverso il linguaggio delle immagini.
Ora che ricordi e documenti giacciono nell’archivio della dimenticanza, vivissima e ineludibile resta l’impressione procurata da un episodio laterale, minimo rispetto alle proporzioni del disastro ma tale da assumere universale significato metaforico. Pugliatti me lo raccontò durante un pranzo alla «Hostaria Romana» ai piedi delle mura del Quirinale. Come era talvolta solito, Aldo Fabrizi, ai fornelli si divertiva a improvvisare specialità culinarie. Fra un piatto e l’altro di una cucina sostanziosa, fiorì sulle labbra di Pugliatti un episodio a cui mi piace attribuire un titolo che fa parte del presente racconto: «L’Ospedale civile e il Circo equestre Bizzarro».
L’Ospedale civile sorgeva sulla piazza con le sue mura possenti. La gente provava, a guardarlo, un senso di sicurezza e di incoraggiamento. Alle persone più ostinate si diceva: «Hai la faccia dura come la cantonera dell’Ospedale civile».
Sotto le feste, al centro dello spiazzo montava il suo tendone un circo equestre: tre cavalli, tre cani, una coppia di ginnasti una cavallerizza e un pagliaccio; quattro pertiche sostenevano il tetto, sensibile a ogni alito di vento, e l’interno custodiva una pista coperta di trucioli, circondata da panche.
Quando il terremoto fece crollare la città, e il maremoto, per compiere l’opera, si abbattè sulle case distrutte, nell’alba grigia si levò un coro di dannati, feriti o agonizzanti. Quelli che potettero, da soli o sostenuti da altri, affrontarono il cammino ormai impervio che portava all’Ospedale per trovarvi cure e ricetto. Qui uno spettacolo inaspettato si presentò ai loro occhi: il colossale edificio si era sbriciolato come un castello di sabbia sulla battigia spazzato dalla mano di un bambino.
Al centro della piazza il «Circo equestre Bizzarro» si ergeva col suo tendone un po’ sbilenco ma intatto. Gli scampati vi trovarono rifugio ed ebbero le prime cure in quell’improvvisato ospedaletto da campo. Poiché tutte le fontane erano diventate mute, i soccorritori, per lavare le ferite, utilizzarono l’acqua che la pioggia aveva raccolto nelle sacche del tendone.


Questa, dunque, è l’ultima immagine di un film mai fatto: un gruppo di soldati che con l’aiuto delle pertiche rovesciano sulla terra straziata l’acqua lustrale piovuta dal cielo.

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