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Thyssen, «fu omicidio volontario» Il manager condannato a 16 anni

TorinoDopo mesi di carte e schermaglie procedurali, in coda alle battaglie sui testi, sulle parti civili, sulla lingua italiana non si sa quanto conosciuta dal principale imputato. Dopo mesi di ricostruzioni, di pianti, di manifestazioni di rabbia e dolore. Ieri per il processo Thyssen è stato il giorno del verdetto. E quello di una sentenza che cambia il volto della giurisprudenza sugli infortuni sul lavoro. La Corte, dopo nove ore di camera di consiglio, accoglie la tesi del procuratore aggiunto Raffaele Guariniello. E la sentenza, accolta da uno scroscio di applausi e dallo svenimento del parente di una vittima, ci dice che la morte dei sette operai è stato un omicidio volontario. «È stata condannata anche l’azienda ed è la prima volta che in Italia si parla di omicidio per una morte in fabbrica, è una svolta epocale», commenta Guariniello. La pena più alta è per l’amministratore delegato della Thyssen, Herald Espenahan condannato a 16 anni e sei mesi di carcere, oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e all’incapacità perpetua di contrattare con la pubblica amministrazione.
Alle 21 la maxi aula uno del tribunale di Torino gremita, proprio come lo era il giorno della prima udienza. In aula anche il procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli. Il ricordo dei sette operai che morirono bruciati vivi la notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007 nella fabbrica di corso Regina Margherita, la ThyssenKrupp, ancora vivo come mai. I volti di Antonio Schiavone, 36 anni e tre figli, Roberto Scola, 32 anni e due figli, Angelo Laurino, 43 anni e due figli, Bruno Santino, 26 anni, Rocco Marzo, 45 anni e due figli, Riosario Rodin, 26 anni, Giuseppe De Masi, 26 anni, stampati sulle maglie dei loro famigliari sembrano guardare i loro carnefici e sono peggio di una condanna.
In mattinata la presidente della Corte d’Assise, Maria Iannibelli ha chiesto che la lettura del dispositivo venga accolta dal silenzio. E il silenzio è irreale. Sui volti dei familiari c’è tensione. Su quelli degli avvocati della difesa c’è ansia. Emozioni che stridono. La lettura del dispositivo dura oltre mezz’ora. Espenahan non sarà l’unico a pagare. Pesanti le pene anche per gli altri cinque imputati, tutte superiori a quanto aveva chiesto la Procura: Marco Pucci, Gerald Priegnitz, Raffaele Salerno, Cosimo Cafueri, sono stati condannati a 13 anni e 6 mesi di reclusione, all’interdizione dei pubblici uffici per cinque e all’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per tutto il tempo di espiazione della pena. Dieci anni e dieci mesi, invece, per l’ultimo dirigente, Daniele Moroni. Condanna anche la Thyssen chiamata in causa come persona giuridica: condannata a una pena pecuniaria di un milione di euro, esclusione per sei mesi da sussidi e agevolazioni e divieto di pubblicare i propri prodotti per sei mesi. Raffaele Guariniello aveva concluso la sua requisitoria dicendo di aver chiesto ciò che giusto in scienza e coscienza. Coscienza che rievoca l’omicidio: era quasi l’una tra il 5 e il 6 dicembre 2007. Per alcuni degli operai della ThyssenKrupp significa l’inizio dell’undicesima ora di lavoro consecutiva. Turni massacranti nella fabbrica in declino per avere i soldi per mantenere i figli, per il mutuo da pagare. All’improvviso la grande lamiera d’acciaio si blocca e provoca scintille. Prendono fuoco brandelli di carta. Un tubo d’olio ad alta pressione si rompe. Le fiamme trasformano l’olio nebulizzato in una palla di fuoco che avvolge tutto e tutti: nello stabilimento l’olio sui pavimenti, sui vestiti degli operai, sulla loro pelle. Non c’è scampo. Intervengono altri operai e afferrano gli estintori.
Erano vuoti, non funzionavano diranno i superstiti. Per terra restano sette corpi carbonizzati. Il telefono della centrale dei vigili del fuoco squilla. Dall’altro capo del filo Piero Barbetta, uno dei capi squadra. Urla sconvolto la sua richiesta di aiuto e in sottofondo si sente lo strazio di chi è avvolto dalle fiamme: sei uomini stanno morendo. Il corpo del loro compagno, Antonio Schiavone, 34 anni, ancora nel pozzetto al di sotto della linea di stampaggio, divorato dalle fiamme. Loro, Angelo, Rocco, Giuseppe, Roberto, Rosario, Bruno, si muovono piano, le carni completamente bruciate, i volti cancellati. Ma ancora respirano e pregano, supplicano i compagni e i medici: Dimmi, sono tanto bruciato? Dimmi la verità. Fatemi vivere, vi prego, ho due bambini.

Ma il loro destino era già scritto.

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