Controcultura

Il tragico, innominabile realismo di Beckett

Massimiliano Parente

Cos'è il realismo? E qual è l'autore più realista? Se il realismo è la capacità di raccontare la realtà, io non avrei dubbi a proposito: non certo Giovanni Verga, tanto meno Émile Zola o uno dei tanti dichiarati realisti che sono arrivati fino ai giorni nostri, per raccontare la camorra, l'immigrazione o la crisi economica. Piuttosto, sopra a tutti, Samuel Beckett. Il quale, a metà del secolo scorso, scava un abisso nella possibilità di narrare, portando al limite il romanzo, la sua capacità di dire qualcosa di significativo, perfino più di quanto avessero fatto Joyce e Proust. Dopo Beckett, il silenzio. Oppure il silenzio messo in scena da Beckett.

L'opera spartiacque è la Trilogia, di cui oggi Einaudi, dopo la ripubblicazione di Molloy e Malone muore, fa uscire il terzo romanzo, L'innominabile, nella magnifica e ormai storica traduzione di Aldo Tagliaferri. È il romanzo più al limite, quello che in sostanza porterà alla rottura con la stessa narrativa e l'autore definitivamente al teatro. È l'opera del realismo estremo, benché in apparenza non vi sia nulla di realistico: non si sa chi parla, non si sa dove ci si trova, non si sa neppure di cosa si parla se non dell'impossibilità di parlare, di dire io, e dell'impossibilità di non farlo. Ma noi davvero sappiamo dove siamo, e chi parla quando parliamo?

«Parola neutra che si parla da sola», così ne disse Maurice Blanchot. Del protagonista conosciamo a malapena la posizione, seduto con le mani sulle ginocchia (ma lo stesso io narrante lo deduce solo dalla pressione del proprio peso sulle natiche), senza la possibilità di appoggiare la schiena, gli occhi aperti, fissi di fronte a sé, e la consapevolezza di essere vivo e di dover finire di lì a poco.

Non è una metafora della vita, è forse l'opera più biologicamente realista della storia della letteratura, è la vita stessa, siamo noi lettori a parlare, in quanto esseri umani: l'innominabile siete voi, chiunque. Se voleste ricondurlo a una situazione quotidiana può essere il monologo di un malato terminale (come già in Malone muore), ma a pensarci chiunque viva è terminale, è solo questione di tempo. Tra le opere più tragiche mai scritte, il libro si chiude con le famose parole: «Bisogna continuare, non posso continuare, e io continuerò».

Perché neppure a chi sta per morire sarà data l'occasione di poter dire la parola fine.

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