Cultura e Spettacoli

Trentenni, belli, di successo. Ma così fragili

Katharina Hacker parla del suo «Gli spiantati», romanzo di una coppia in crisi, con cui ha vinto il «Deutscher Buchpreis 2006»

Giovani, ricchi, belli, innamorati, affermati, lanciati in carriera internazionale. Sono proprio loro Gli spiantati che la scrittrice tedesca Katharina Hacker, quarant’anni, chiama senza complimenti con il loro nome nel romanzo subito insignito del Deutscher Buchpreis 2006 e presto divenuto un caso letterario in Germania. Impegnati come sono a inseguire i loro successi tra Berlino, New York e Londra - nella trama del libro -, e tra Usa, Olanda, Corea, Grecia, Turchia, Israele, Cina, Russia, America Latina, Vietnam - nella sua clamorosa divulgazione editoriale - hanno acquistato appieno il titolo (e venduto quasi ovunque i diritti di traduzione: in Italia ci ha pensato Francesca Gabelli per Bompiani, 350 pp. 17,50 euro) di rappresentare la loro generazione in Europa e nel mondo.
Con tutto questo, manca loro qualcosa. Anzi, non hanno alcunché se, a dispetto dell’ottima posizione professionale (Jakob è avvocato, Isabelle grafica) e legittimazione sociale (giovane coppia benestante e invidiata), la qualifica che meglio li definisce è quella di Habenichtse. Peggio che «non abbienti» o «nullatenenti», sono tanto più pasciuti e viziati, quanto più insoddisfatti e annoiati. È solo per via dell’età? Della famigerata terza decade in cui culmina il cammin di nostra vita e poi declina? Quando uno entra Nel Trentesimo Anno, scriveva mezzo secolo fa la più grande poetessa tedesca del '900, Ingeborg Bachmann, tutto è messo in dubbio: a partire dal diritto di sentirsi «giovani».
È ancora così?
«Forse nel frattempo il quarantesimo anno è diventato quello cruciale: il culmine della parabola, la metà della vita. Al suo compiersi si rende evidente, dolorosamente, che si vive una volta sola, e che tante occasioni sono andate perdute».
A metà della vita, al centro del mondo (tra Mitteleuropa, World Trade Center e la City), nel cuore della storia (tra l'attacco alle Twin Towers e la guerra in Irak) i suoi eroi sono due modelli esemplari dell'umana condizione dell'Occidente moderno o rientrano nella media (mediocrità) della loro generazione?
«Volevo scrivere di persone della mia età, con tutti i rischi di eccessiva identificazione e fittizia oggettività che ciò comporta. Non era una scelta naturale, bensì una sfida letteraria. In fondo il mio primo romanzo Der Bademeister racconta di un “Bagnino” 58enne tedesco orientale, e il secondo, Eine Art Liebe, di “Un tipo d’amore” tra un ebreo e una cattolica durante il nazismo. Qui, per mettere in chiaro che di un romanzo sull’attualità si trattava, sulla moderna società, ho giocato la carta dell'11 settembre: una data che segna l’epoca e le vite de due protagonisti. Jakob è promosso e trasferito a Londra al posto di una collega uccisa nell'attacco alle Torri».
I fatti della storia privano gli spiantati di sicurezza e prospettive di futuro?
«Non credo che sia del tutto negativo non avere certezze e illusioni. Un sano scetticismo è una buona difesa da un mondo che non ha più nessun saldo fondamento da offrire. Viviamo in un’epoca in cui l’ottimismo e l’entusiasmo sono celebrati, nel cinema, nella Tv e nell’informazione, come atteggiamenti positivi e auspicabili. Mi sembra un imbroglio».
Sono i media, allora, responsabili di un senso di perdita della realtà?
«Guardo alla Tv con molta diffidenza. Ma non ho competenze per giudicarla, perché non ne possiedo una. Amo il cinema, ma al momento degli spot mi sento confusa, smarrita: la velocità di quelle immagini che scorrono, le evocazioni che suscitano, e quel dannato ottimismo sempre sottointeso!».
A Londra i suoi ricchi spiantati vivono a Kentish Town, porta a porta con classi disagiate e casi di violenza, droga, maltrattamento minorile. Che conclusioni dobbiamo trarre dal confronto?
«Che c’è una povertà materiale più amara di quella esistenziale, di fronte a cui i malesseri di chi vive nel benessere dovrebbero tacere.

Di questi casi più gravi, invece, tacere non si dovrebbe: chi non ne è afflitto tende troppo facilmente a dimenticarsene».

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