Controcultura

Quel Tricolore stra, anti e arci

Quel Tricolore stra, anti e arci

Luigi Mascheroni

La storia d'Italia, almeno la più recente, diciamo quella del Novecento, ha tirato una linea di confine precisa fra le due categorie degli stra e degli anti italiani. Tra quanti hanno continuato ad amare, al di là della somma mostruosa dei vizi nazionali, questo strano Paese così abituato al Bello da arrivare persino ad averne noia. E quanti, pure di fronte a secoli di Arte, Filosofia e Gusto, non hanno mai sopportato un popolo che prima ha creato una civiltà e poi ha perso quasi del tutto il senso civico.

Curiosamente, però, i campi al di qua e al di là del limen - lì gli stra italiani fino all'ultimo respiro, qui gli anti italiani più inflessibili - appaiono ribaltati rispetto al giudizio. I primi, in maniera troppo semplificata collocati a destra, fra nazionalismi vari e Strapaese - da Longanesi a Montanelli - sono coloro che più l'hanno sferzata, smascherandone gli atavici vizi, troppe volte ingigantiti: quelli che «gli italiani sono buoni a nulla, ma capaci di tutto». I secondi, per comodità posizionati a sinistra, fra Azionismo e derive globaliste - da Bocca a Saviano - sono coloro che più l'hanno sublimata, rimpiangendo antiche virtù spesso idealizzate: quelli che «gli italiani non sono razzisti, ma lo sono diventati».

E poi ci sono gli «arci» italiani, come Curzio Malaparte, che sta sia a destra che a sinistra, fascista e maiosta, l'unico capace di tenere una firma dentro Strapaese e una dentro Stracittà, così spietatamente italiano da donare in punto di morte la sua opera più bella, Casa Malaparte a Capri, all'anti italiana Repubblica Popolare Cinese. Del resto la sua battuta migliore, a proposito dell'Italia, rimane «Culla del diritto e del rovescio».

È una regola aurea. Coloro che maggiormente criticano l'intima natura dell'Italia e il carattere degli italiani sono gli stessi che provano un amore viscerale per la prima e un'umana comprensione per i secondi. Leo Longanesi era un italiano dalla testa ai piedi, proprio perché all'Italia era capace di restituire, per mezzo dei suoi aforismi e dei suoi disegni, tutti gli aspetti più meschini e grotteschi degli italiani. Giuseppe Prezzolini, che titolò la propria autobiografia L'italiano inutile, amava così tanto l'Italia da starsene il più possibile lontano, autoesiliandosi prima in America e poi a Lugano. Al di fuori dall'Italia poteva capire meglio il didentro degli italiani. «Questa Italia non ci piace» era il motto in cui si riconosceva Prezzolini (e i vociani). Ma lo scrittore passò la vita a tentare di migliorare a suon di critiche il proprio Paese, alla disperata ricerca di «un'Italia senza retorica, con meno chiacchiere, più seria, più colta, più ricca, più pulita e più ardita. E anche un'Italia meno scettica e meno pronta ai compromessi». E Ennio Flaiano? Era convinto che gli italiani dessero il meglio di sé nel peggio. Ma il modo magnifico in cui ha svelato, infilzandole, le contraddizioni dell'Italia, ce le fa apprezzare come un aspetto ormai irrinunciabile della nostra natura. E Montanelli, che attraversò - sempre da prima firma - fascismo, antifascismo, Prima e Seconda Repubblica, craxismo, berlusconismo e antiberlusconismo, è stato - nel suo essere il più ostinato degli italiani scettici -, il nostro più grande arci italiano. Avendo scritto ventidue impietosi volumi sulla Storia d'Italia, finì inevitabilmente per considerarla tra le più gloriose dell'umanità. Poi c'è Oriana Fallaci: «È un Paese così diviso, l'Italia. Così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all'interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo. Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali». Lo scrisse mentre era da qualche parte in giro per il mondo, fra Saigon e New York, a distanza di sicurezza dai suoi connazionali. Ma quando fu il momento di proteggere la sua Firenze, la sua Italia, la nostra cultura, fu la prima a farlo. Con lo stesso amore con cui aveva contestato, così difese.

L'Italia è quello che è, con tutti i suoi splendidi difetti e le sue bellezze insopportabili. Poi c'è chi ne elenca con finta convinzione e mascherato cinismo le doti (più vagheggiate che evidenti): liberalità, generosità, laboriosità, accoglienza. Augurandosi il peggio.

E chi, pur davanti alle tare inestirpabili di un Paese di furbi e di fessi, rimane convinto, mugugnando, che sapremo tutti trovare, solo in noi stessi, la forza di salvarci.

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