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Troppo bella per le bulle E a 13 anni si impicca

La bellezza contiene qualche cosa di misteriosamente arbitrario, e non sempre è sinonimo di gioia, soddisfazione o felicità. Perfino negli antichi miti greci la Discordia fa cadere il suo famoso pomo tra le dee offrendolo «alla più bella», suscitando così una guerra feroce tra Era e Artemide in particolare, senza che le altre deità femminili olimpiche ne siano estranee.
Perfino la guerra di Troia e i suoi feroci massacri sono la conseguenza di una donna bellissima come Elena.
E neppure il sapientissimo Salomone fu alieno alle seduzioni della regina di Saba. Insomma la bellezza, soprattutto se relegata al suo puro aspetto estetico, può essere fonte anche di gravi disgrazie per chi ne è, soprattutto se ingenuamente, portatore o portatrice.
Pensare che un’adolescente possa essere spinta al suicidio dall'aggressività e dall'esclusione di una banda di coetanee invidiose del suo aspetto estetico, è qualche cosa che può apparire non soltanto mostruoso, ma anche assurdo.
C'è d'altra parte, nella psicologia degli adolescenti, una fragilità che spesso si incastra con la ferocia. Non soltanto dei bulli o delle bulle, persecutori nei confronti della vittima, ma anche singolarmente della vittima con se stessa.
I comportamenti suicidari, soprattutto nell'adolescenza, sono un disperato urlo nel silenzio di chi ritiene di non potersi fare ascoltare in altro modo.
Esprimono la manifestazione estrema della solitudine e dell'incomunicabilità. Ma anche un abisso di solitudine di cui le famiglie presenti e i gruppi di giovani oggi sono spesso tragici testimoni e attori.
In famiglie piccole e isolate, che i sociologi chiamano nucleari proprio perché minute, ma al tempo stesso si potrebbe dire anche esplosive come l'omonima bomba, le contraddizioni stentano a mitigarsi, a diluirsi e a essere digerite.
Un tempo si cresceva fin da piccoli tra molti fratelli, cugini, vicini di casa e di cortile, non importa se di cascina o di ballatoio. Oggi per lo più per potere mimare questa educazione comunitaria tra pari, bisogna farla diventare una sofisticata tecnica psicopedagogica, che suona meglio in inglese come «peer education».
Il bullismo è l'esatto contrario di tutto ciò. Infatti trasforma la comunità di pari in un branco di individui isolati, ma sodali e feroci nell'identificare la vittima. Ciò che conta è la sua diversità, che spesso assume la forma della fragilità, della disabilità, o in generale di una qualsiasi alterità in minore. Ma che singolarmente può colpire come vittima e bersaglio anche una coetanea considerata troppo bella. Quindi capace di alterare l'accesso tribale ai maschi più appetibili della microsocietà, troppo magnetizzati e attratti dalla piccola miss e vittima designata.
Ciò che colpisce in questa storia, è la mancanza di interlocutori adulti in grado di offrire una zattera di salvataggio accogliente ed educativa a questo piccolo grande martirio con un esito tragico. È notorio purtroppo che genitori e figli, adulti e ragazzi, insegnanti e allievi, sembrano vivere gli uni a fianco degli altri come se abitassero su pianeti diversi e parlassero lingue incomprensibili gli uni dagli altri.
In questa partita giocata sulla stessa scacchiera, che si chiami casa, famiglia, scuola o quartiere, queste due tribù contigue sembrano giocare la stessa partita, ma come se gli uni si muovessero sugli scacchi bianchi e gli altri su quelli neri senza potere quindi incontrarsi e parlarsi mai, pur sfiorandosi in ogni momento.
In tempi come questi, ciò che più stupisce è lo stupore degli adulti quando una tragedia come un dramma si è compiuta. Emerge prepotentemente come i figli possano diventare sconosciuti e alieni per i loro genitori, così come gli studenti illeggibili ai loro professori e viceversa.
Diceva Platone: «Grande è quel popolo in cui i giovani sanno ascoltare i vecchi, e i vecchi rispettano i giovani». Oggi potrebbe essere vero anche il contrario.
Ma ciò che manca e che rappresenta la merce più rara, è quella dimensione amorevole e sensibile della vita, a cui il giusto mondo, così attento soltanto ai beni materiali e all'esteriorità, pare aver rinunciato con esiti come questo che sono ahimè sotto gli occhi di tutti.
Se la vita cessa di essere un dono sacro che ci viene donato e prestato e non l'oggetto di un possesso arbitrario, il rischio di annientare quella degli altri o di sacrificare scioccamente la propria, è altissimo.
Una vita che, se non ritrova il proprio orizzonte divino, rischia di essere soltanto una corsa al successo, peraltro in qualche caso precocemente velenosissimo come accaduto alla ragazzina di Manchester.
Dicono gli indiani, in un'espressine che Gandhi molto amava, «Namasté», cioè saluta il divino che c'è in te.


Esattamente ciò che né le feroci piccole bulle, né forse la loro fragile vittima sapevano di misteriosamente contenere.

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