Cultura e Spettacoli

Tutti alla Fiera (delle vanità) del libro

Giornalisti presenzialisti, cantanti pop assediati dalle ragazzine, comici di Zelig, Luxuria e le sue fiabe: il Salone di Torino mescola appuntamenti di cultura a esibizioni di narcisismo delle solite primedonne

Tutti alla Fiera (delle vanità) del libro

Antonio Di Pietro, che ha poco tempo da perdere con la sintassi, sarà forse il primo a sorprendersi della deriva a lui favorevole che la Fiera di quest’anno sembra aver preso, almeno a giudicare dal fior d’intellettuali che lo prendono molto sul serio e ne amplificano perfino il pensiero come a conferirgli una struttura anche morfologica più nobile. Un Eugenio Scalfari saggio e ispirato, che ammonisce e laicamente benedice i suoi ammiratori sul tema della modernità il giovedì, e la domenica torna a parlarci di Nietzsche, il filosofo tedesco della morte di Dio.

DIPIETRISTI CHIC
Il coté dipietrista annovera svariate personalità ieratiche che dalle stanze dell’albergo più lussuoso possibile, adiacente al Lingotto, fanno calare, insieme a se stessi, la lezione di strategia politica, come Paolo Flores d’Arcais, con lo storico incorporato Luciano Canfora o la Lilli Gruber che sabato scuoteva la testolina gravida di sapienza a commento delle vignette di Vauro. Lo stesso Vauro illuminato dal fuoco della giustizia rivoluzionaria, ha condiviso ieri (domenica) il palco con la demo-aristocratica Beatrice Borromeo e il Marco Travaglio caricato a molla. Finché è proprio lui, l’intraprendente ex magistrato molisano, a palesarsi sempre ieri in una performance dal vivo con l’accompagnamento del sindaco Chiamparino e di un Fausto Bertinotti in pieno rilancio intellettivo, per un incontro intitolato La notte della sinistra che ci fa correre lungo la schiena, mentre scriviamo, brividi di forte aspettativa.

MARCO PREZZEMOLINO
Ma torniamo a Marco Travaglio, che abita a Torino, ed è un ingrediente essenziale della Fiera come l’acciuga nella bagna caoda. Egli guarda con un cipiglio di consapevole ironia verso l’infinito degli ideali più alti, fra cui quello di pubblicare e vendere tantissimi libri. Lo vedi il sabato mattina con il Flores d’Arcais, il pomeriggio con Rosita Celentano, il giorno dopo con la sopraddetta Borromeo, passando per tutti i registri, bassi, medi e aulici, sempre senza perdere la piega del sopracciglio elevato a riprovazione della cattiveria dei potenti che non gli giovano alla carriera esibizionistica.

INIZI LO SHOW
Che lo spettacolo cominci. Se bisogna attrarre le platee, riempire i vuoti, innalzare le statistiche, impennare i dati, c’è un modo sicuro: convocare i volti noti, visti di recente in tv. Le ragazzine, e non solo, adoranti raggiungono il numero di seicento per cogliere qualche frase di Claudio Baglioni, il cantautore a cui è scappata l’autobiografia. E si può anche capire, qualcosa da raccontare ce l’avrà pure, dopo tanti anni. Ma allora perché non fare un salto anche da Cesare Cremonini, il divetto pop di Bologna, anche lui attraversato dall’urgenza di raccontarci di sé. E via a scendere giù per la vertiginosa rampa dell’audience, fino a un certo Giovanni Vernia, che stanco di fare l’ingegnere (professione faticosa e mal retribuita) si è inventato un personaggio vestito un po’ da scemo che si fa chiamare Dj Johnny Groove, lo hanno fatto esibire nella trasmissione Zelig e adesso emette dei versi che fanno tanto ridere i giovani e intanto affibbia loro, assieme all’autografo e a caro prezzo, l’agenda Smemoranda di Gino e Michele. Per non farsi mancare niente, chi ha potuto ha rispolverato Paolo Conte e perfino Gino Paoli. Li mettono da qualche parte a modulare il ritornello e oplà, subito spunta una qualche opera cartacea che fisicamente è un libro.

TRANS-LETTERATI
I fenomeni sono fenomeni, lo sarebbero anche se non scrivessero, ma loro no, devono convincere tutti che hanno una bella testa pensante, e concetti originali e profondi da esprimere. Per farlo, affrontano un ampio ventaglio di generi letterari e poi qualcuno, gli uffici marketing e commerciali in testa, cercherà di scaricarceli addosso come un concentrato d’irrinunciabile saggezza, o un matto divertimento. Prendiamo per esempio Vladimir Luxuria e la sua transletteratura, che non risparmia neanche i bambini. Il fenomeno politico televisivo, ma anche chirurgoplastico dell’ultimo biennio, ci infligge, partendo proprio da Torino, una raccoltina di fiabe che affrontano temi notoriamente formativi per i giovanissimi, quali la liposuzione e le zinne posticce. Che a presentarla sia stata chiamata una scrittrice vera come Camilla Baresani rende ancora più inquietanti e pruriginosi i confronti. L’editore, Bompiani, due giorni dopo e nello stesso luogo, forse per amore dell’estremo, sforna in anteprima un’opera ponderosissima, la raccolta degli scritti di Teodorico Moretti Costanzi, un filosofo e docente universitario oscurato dal pensiero unico laicista nella Bologna degli anni Settanta. Il libro, a cura di Edoardo Mirri e Marco Moschini, commentato da Giovanni Reale e Vittorio Sgarbi, atterra in mezzo a noi come recapitato da un paese alieno. Poi uno esce di lì, si aggira tra la folla anche un po’ imbambolata e nota fremiti di vitalità solo quando gli obiettivi scattano verso un radioso Emanuele Filiberto di Savoia, frequentatore dell’Italia più che dell’italiano, o di Ascanio Barbetta Celestini, attore che dà voce alla lotta di popolo anche a costo che non glielo chieda nessuno.

GIORNALISTI IN VETRINA
Le vere prime donne sono però i giornalisti, e qui dobbiamo dire, senza ombra d’ironia, che Enrico Mentana ci travolge di empatica commozione quando sfodera la passionaccia verso un mestiere difficile e ingrato al quale ha dato tutto ricavandone, finora, solo poco più che una rendita vitalizia per una mezza dozzina di generazioni. Non gli è dissimile Michele Serra, penna acuta della sinistra che non gratuitamente riporta noi mestieranti a una coscienza morale del nostro compito. E poi c’è la figura del giornalista critico, aureolato di autorevolezza. Un esempio per tutti: Antonio D’Orrico, lo scopritore di talenti a corrente continua, che lo vogliano o no. Un uomo per cui la parola capolavoro non è mai superflua o esagerata.

Purché quando e come usarla lo decida lui e lui soltanto.

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