Roma

Tutto Antonello da Messina in una mostra

Silvia Castello

È nel vivace entourage della corte aragonese di Napoli che Antonello da Messina -a bottega da Colantonio - assimila il gusto per i colori accesi, tipico dei pittori fiamminghi, catalani e provenzali. Ma è l’arte di Piero della Francesca vista a Roma, a marcare più profondamente la sua produzione artistica, con la presenza insistente dei personaggi, il rigore delle pose costrette in un’immobilità assorta. Mentre Piero però scava nella figura, fino a evidenziarne la geometria in contorni scabri e quasi austeri, le forme di Antonello restano immerse in un’atmosfera più dolce, che evoca quella della pittura di Giovanni Bellini, con cui ebbe contatti durante il suo felice soggiorno veneziano, tra il 1475 e il 1476. In un evento eccezionale, i capolavori del Rinascimento siciliano di Antonello da Messina (1430 circa- 1479) sono ora riuniti nelle panoramiche sale delle Scuderie del Quirinale, in una preziosa esposizione monografica a cura di Mauro Lucco e coordinata da Giovanni C. F. Villa, costata 2 milioni di euro in vista dei 180mila visitatori previsti entro il 25 giugno. La rassegna presenta la quasi totalità rimanente del corpus pittorico del messinese che coniugò lo spirito del Rinascimento italiano con l’amore tardogotico per il dettaglio dell’arte Fiamminga. L’excursus espositivo mette in luce circa 40 sue opere, con la serie delle «Annunciate» - tra cui quella di Palermo del 1475 -, fino ai celeberrimi «Ecce Homo», le «Crocifissioni», e l’altissima poesia dei volti a tre quarti, in un confronto con quelle di altri artisti del tempo, come Jan van Eyck, Giovanni Bellini e Alvise Vivarini, il maestro Colantonio, e il figlio Jacobello, Antonello da Saliba, Giovan Battista Cima da Conegliano, Petrus Christus, Francesco Laurana, Jacometto Veneziano: 60 dipinti in tutto. Passano in rassegna il «San Girolamo nello studio» e la bellissima «Madonna Salting» della National gallery di Londra, così come il «San Sebastiano» di Dresda, la «Crocifissione» di Anversa, il «Cristo alla Colonna» del Louvre. E ancora i suoi ritratti più conosciuti, con le tavole già presenti sul territorio italiano, come l'enigmatico «Ritratto d’uomo» di Cefalù; quello dall’impenetrabile sorriso affine al kouros greco. Di cui si racconta una affascinante storia intrisa di leggenda, che vorrebbe l’opera, (nota anche come «Ritratto di ignoto marinaio»), proveniente dall’isola di Lipari, dove pare fosse montata come sportello di un mobile da farmacia. Vista dal barone di Mandralisca, la tavola venne acquistata per la sua collezione privata. L’oscura provenienza, ha accreditato così la leggenda che si trattasse del ritratto di un marinaio, o forse un pirata. «A chi somiglia l’ignoto del museo Mandralisca?» si chiedeva Leonardo Sciascia. «Al mafioso della campagna e a quello dei quartieri alti, al deputato che siede sui banchi della destra e a quello che siede sui banchi della sinistra, al contadino e al principe del foro; somiglia a chi scrive questa nota (ci è stato detto); e certamente assomiglia ad Antonello. E provatevi a stabilire la condizione sociale e la particolare umanità del personaggio. Impossibile. È un nobile o un plebeo? Un notaro o un contadino? Un pittore, un poeta, un sicario? Somiglia, ecco tutto».

Certo è, che - come scrisse Federico Zeri del Ritratto di Cefalù - «in quel sorriso è condensata l’ambigua essenza della sua isola fascinosa e terribile».

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