Ue, serve un cambio di rotta

Alberto Indelicato

Dopo il doppio rifiuto popolare di ratificare quel documento chiamato, con una sorta di ossimoro, «trattato costituzionale» europeo, chissà se coloro che per convincere i dubbiosi avevano speso quantità industriali di catastrofiche previsioni si vergognano di ciò che hanno detto o scritto. Colui che ha assicurato pochi giorni fa sull’Unità che senza quel documento non ci sarebbe stata per tutti gli europei «alcuna possibilità di sopravvivenza» è - come ci auguriamo - sopravvissuto al risultato del referendum?
E il ministro olandese della giustizia Piet Hein Donner, secondo il quale un risultato negativo avrebbe fatto ripiombare il continente nelle guerre dei secoli, scorsi, si sarà già rifugiato in un ricovero antiaereo, munito di maschera antigas?
Per intanto gli ex catastrofisti si consolano svalutando non già i risultati (i numeri hanno la testa dura) ma gli elettori, accusati di essere stupidi, conservatori, razzisti, xenofobi e chi più ne ha più ne metta. Il guaio è che queste accuse, provenienti in genere alla «sinistra per bene», partono dal presupposto che i vincitori delle consultazioni siano tutti seguaci di Le Pen e simili; mentre sia in Francia che nei Paesi Bassi il no è venuto, oltre che dalle ali estreme, da appartenenti a tutti i gruppi politici e specialmente dai socialisti. È vero peraltro che molti di costoro, bocciando il trattato, volevano dare una battuta d’arresto al «liberalismo», cioè al libero mercato e alla globalizzazione.
Non sarà stata né la prima né l’ultima volta che qualcuno abbia «fatto la cosa giusta per la ragione sbagliata», per dirla con l’Eliot di «Assassinio nella cattedrale». Infatti la globalizzazione, che non dipendeva né dipende da quel trattato, continuerà tranquillamente. Ciò che probabilmente non continuerà sarà la prosecuzione delle procedure di ratifica.
Il governo britannico ha già fatto intendere di non avere più l’intenzione di organizzare il referendum su un testo che in ogni caso non potrebbe essere applicato. E ciò significa che la sua ratifica non sarebbe neppure sottoposta alla Camera dei Comuni. Si può immaginare facilmente che, checché ne dicano la commissione e i padri mancati dell’infelice testo, l’esempio britannico sarà seguito anche dagli altri stati, a cominciare da quelli che avevano previsto di sottoporlo a referendum popolari, come la Danimarca e il Portogallo.
Ciò che è avvenuto non è una tragedia. Un ottimista dirà che si tratta solo di una battuta d’arresto. Sarebbe un errore: più realisticamente si deve dire che si tratta dell’indicazione di un necessario cambiamento di rotta.
Da un canto è emersa l’esigenza che sia colmato il fossato esistente tra le classi dirigenti e coloro in nome dei quali esse prendono delle decisioni senza neanche degnarsi di ascoltarli. In particolare, l’avvertimento è diretto alla coppia franco-tedesca che, essendosi impadronita del timone, secondo quanto ha scritto sul Financial Times l’ex commissario europeo Fritz Balkestein, «è stata incapace di guidare la barca».


È un interessante paradosso, quasi una nemesi, che l’inevitabile revisione del progetto europeo tanto caro a Giscard d’Estaing e a Chirac perché avrebbe dovuto creare una «Europa francese», sia stata originata proprio dal voto dei cittadini francesi.

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