Controstorie

Tra gli ultimi combattenti «I nostri 70 anni di guerra»

L'etnia Karen chiede l'indipendenza dal 1949 Viaggio tra i volontari che sono ancora in armi

Fabio Polese

Oo Kray Kee

I l conflitto più lungo e dimenticato del mondo compie settant'anni. È quello dei Karen, un'etnia che vive in una striscia di terra della Birmania Orientale, al confine con la Thailandia. Questo popolo ha imbracciato le armi nel lontano 1949 e si batte per la difesa della terra dei propri avi, della propria cultura e delle proprie tradizioni. Proprio ieri, il 31 gennaio, i Karen hanno celebrato il «Revolution Day», siglando sette decenni di barricata, sofferenze e sogni di libertà.

La Birmania, ribattezzata Myanmar dalla giunta militare centrale nel 1989, è composta da un centinaio di etnie forzatamente inglobate durante il periodo coloniale inglese, nel XIX secolo. Alla fine del secondo conflitto mondiale con il «Trattato di Planglong», Aung San il presidente del Paese di allora e padre della leader di oggi aveva concordato con i capi delle più numerose popolazioni, la possibilità di scegliere il proprio destino politico e sociale entro dieci anni. Ma l'accordo non è stato mai rispettato. Con un colpo di Stato Aung San è stato ucciso e il potere è passato alla spietata giunta militare che ha iniziato sistematiche violenze contro tutte le etnie. Da quel giorno i Karen hanno iniziato a combattere. Armi in pugno. E, con lo stesso obiettivo di allora, lo fanno ancora oggi. Una candela accesa dentro la piccola capanna costruita in legno illumina la notte. L'umidità della giungla penetra nelle ossa, mentre la temperatura scende inesorabilmente con il buio.

Dopo sei ore di viaggio dalla città thailandese di Mae Sot, sono da poco arrivato ad Oo Kray Kee, un villaggio che, oltre ai civili, ospita il quartier generale del Karen National Defence Organization (Kndo), un reparto d'assalto dell'etnia. Le autorità birmane hanno chiamato questa zona Black Area. Un posto dove giornalisti e organizzazioni umanitarie non possono entrare, ma dove tutto è possibile. Si spara a vista e i crimini contro la popolazione sono all'ordine del giorno. Per questo la frontiera si attraversa clandestinamente, lasciando la strada principale con i suoi pericolosi tornanti e i molti check-point dell'esercito thailandese, per poi entrare nella fitta boscaglia. Con me c'è Say Thoo, un volontario della Kndo che non mi abbandonerà mai in tutta la mia permanenza. Ha 38 anni, un viso pulito e sorridente. I denti macchiati di rosso dalla noce di betel tablula, nella lingua dei Karen che continua a masticare.

«Sono sposato, ma mia moglie sta nel campo profughi thailandese di Umphiem», racconta accettando una sigaretta. «Un giorno, quando vinceremo la nostra guerra, potremo essere finalmente liberi di vivere insieme nel nostro Stato».

«Siamo costretti a combattere», spiega il generale Nerdah Mya figlio di Bo Mya, il leggendario eroe della resistenza morto nel 2006 numero uno del reparto d'assalto. «Dobbiamo difendere la terra dei nostri antenati e il nostro popolo», aggiunge. Il villaggio è immerso nella foresta, tra la natura che ancora non conosce i mali della modernità. Un paesaggio quasi magico che rispecchia l'indole di questo popolo pacifico originario della Mongolia e del Tibet, arrivato in queste zone dopo una lunga migrazione nel 730 Avanti Cristo.

La guerra più lunga del mondo, fino ad ora, ha causato migliaia di vittime e numerosi Karen sono fuggiti dai loro villaggi. Almeno 500mila sono i rifugiati interni, oltre 130mila quelli che sono finiti nei campi profughi disseminati nella vicina Thailandia. Molte persone porteranno per tutta la vita i segni indelebili delle mine antiuomo con cui le truppe di Rangoon hanno reso impenetrabile la foresta.

Anche il 2019 è iniziato con altri morti e sfollati. Pesanti attacchi delle truppe birmane sono in atto proprio in questo momento nel Nord dello Stato Karen, nel territorio controllato dalla 5° Brigata del Karen National Liberation Army (Knla) del comandante Baw Kyaw, soprannominato «la Tigre». Eppure, almeno secondo i governi occidentali, la situazione sarebbe dovuta cambiare definitivamente alla fine del 2015, con la vittoria alle elezioni della National League for Democracy (Nld), il partito guidato dal premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. Ma qui giurano tutto il contrario. «Da quando il nuovo governo è entrato in carica la situazione è peggiorata, perché il Tatmadaw (l'esercito birmano, ndr) ha ottenuto il riconoscimento e la legittimità della comunità internazionale». A parlare è Hsa Moo, uno dei leader del Karen Environmental and Social Action Network (Kesan), un'associazione che tutela l'ambiente e i diritti degli indigeni. «Il generale Min Aung Hlaing, comandante in capo delle truppe birmane, è stato ospitato in visite ufficiali in molti Paesi occidentali e ha anche ricevuto un'importantissima onorificenza dalla famiglia reale thailandese nel febbraio del 2018. Questi viaggi continua Hsa Moo hanno permesso all'esercito di firmare anche nuove commesse per acquistare armamenti, compresi quelli che vengono usati per lanciare le offensive contro tutte le organizzazioni armate etniche».

La motivazione del conflitto è soprattutto economica. I generali al potere in questi anni, infatti, hanno tentato in tutti i modi di annientare ogni specificità, interessandosi molto di più alle ricche risorse naturali legname, gas, pietre preziose, oro che le zone abitate dalle etnie offrono. «I nostri territori sono ricchi di risorse naturali che noi non siamo disposti a far sfruttare selvaggiamente dalle grandi multinazionali. Per questo vogliono eliminarci», mi spiega Nerdah Mya. Ma sembra che le truppe birmane non abbiano fatto bene i loro conti. «Questa è la terra dove siamo nati, la terra per la quale lottiamo e nella quale intendiamo vivere oppure, se necessario, morire da uomini liberi», assicura il leader del Kndo prima di salutarmi.

Per me è ora di tornare in Thailandia.

Ma qua, nella giungla dei Karen, dopo settant'anni, il conflitto più lungo e sconosciuto del mondo non sembra ancora destinato a finire.

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