Cultura e Spettacoli

"Nei teatri troppi privilegi. ​Andrebbero licenziati tutti"

Cecilia Bartoli, la mezzosoprano che ha calcato i più famosi palcoscenici del mondo, preferisce lavorare all'estero: "In Italia servirebbe una pulizia generale e ripartire da zero"

"Nei teatri troppi privilegi. ​Andrebbero licenziati tutti"

Metropolitan di New York, anno 1997. Le prove di Cenerentola sono in corso. Dietro le quinte squilla una voce piena di sole. E la voce inconfondibile, con tanto di esse modenese, del tenore dei tenori, Luciano Pavarotti. «Sei proprio una campionessa», dice a una giovane cantante, italiana come lui. La fuoriclasse si chiama Cecilia Bartoli, mezzosoprano. Pavarotti coglie nel segno. La Bartoli è oggi artista da dieci milioni di dischi, ha costruito una carriera originale: scandita da progetti il cui lancio è un evento. Solo per lei, l'etichetta discografica Decca affitta regge (quella di Versailles per esempio) e castelli. Il festival più prestigioso d'Europa, quello di Salisburgo, le ha rinnovato il contratto di direzione artistica del ciclo di Pentecoste: è la prima donna a dirigere questa manifestazione. Sarà con pagine di Vivaldi che chiuderà il semestre della Scala per Expo, in ottobre, in un concerto speciale al fianco dei Barocchisti diretti da Diego Fasolis, e dopo un'estate spesa a Salisburgo, quindi in giro per l'Europa sull'onda dell'ultimo cd dedicato a San Pietroburgo, la data più vicina, quella di luglio a Bad Kissingen.

La sua Norma ha vinto l'Oscar dell'Opera del 2013. Come capitalizzerà questo successo?

«Portando in giro la produzione anche in futuro. Si riparte da Salisburgo».

C'è tanta Europa nell'agenda della Bartoli. Che ne è dell'America che la rese una star contesa da Letterman, Sixty Minutes, New York Times ...

«Ho iniziato negli Usa, ma poi la mia carriera era troppo sbilanciata, c'era poca Europa. Così decisi di rientrare nel Vecchio Mondo».

Si è poi stabilita a Zurigo. Ha uno staff svizzero, anche il marito è svizzero (il baritono Oliver Widmer). Amore per rigore e precisione?

«Il teatro di Zurigo mi permise subito, a 21 anni, di debuttare diversi ruoli. E anche durante la lunga fase americana, mi ha invitato regolarmente ogni anno. È sempre stato il teatro e dunque la città di riferimento».

È fresca di debutto nel ruolo di Ifigenia (di Gluck), a Salisburgo. È andata in scena scapigliata, imbruttita. Quanto costa, per una cantante avvenente, rinunciare totalmente alla bellezza?

«Anna Magnani disse che aveva impiegato parecchio tempo per costruirsi quelle rughe. Anch'io non voglio togliere niente ai miei personaggi. Ifigenia andava presentata così, con tutta la sua crudezza».

In tal senso, la maturità professionale aiuta...

«La maturità e anche la conoscenza dello strumento vocale. Ho alle spalle trent'anni di teatro ormai. Calarsi in un personaggio è fondamentale, e Ifigenia in Tauride è opera talmente dura e drammatica da non lasciare spazio ad altro. Ifigenia è una donna che da 15 anni vive in miseria, troverei imbarazzante pensarla bella, spumeggiante e ben pettinata».

I registi della sua Ifigenia firmeranno anche la regia dell'opera della prossima prima della Scala con Giovanna d'Arco.

«La Scala può dunque dirsi molto fortunata. Leiser e Caurier curano molto la recitazione. Certo, richiedono cantanti che siano anche bravi attori».

Sbaglio o la protagonista di Giovanna d'Arco è Anna Netrebko?

«È bravissima, una grande diva».

Ma un tempo le dive non bisticciavano?

«Invece noi ci frequentiamo. Anna ha una bellissima voce e presenza scenica, l'ho già invitata al mio festival».

Parlava di maturità. L'ultimo film di Sorrentino, Youth , è centrato su un direttore d'orchestra che ha troncato con le scene. Lei s'è posta un limite in tal senso?

«Già occuparmi di un festival come quello di Pentecoste è un cambiamento notevole nella carriera, è una grande sfida. È breve, non paragonabile a quello estivo, ma proprio per questo mi consente di cantare ancora, ampliando però i miei orizzonti».

La voce ha una scadenza. In futuro potrebbe esserci anche il puro management?

«Chi lo sa. Perché no. Le cose sono andate bene fino a ora, incrociamo le dita. A Salisburgo mi hanno chiesto di rimanere fino al 2021».

Se le offrissero la direzione di un teatro italiano, accetterebbe?

«A patto di poter licenziare tutti e ripartire da zero. Probabilmente la strada è proprio questa: fare un po' di pulizia generale. Purtroppo ci sono troppi diritti acquisiti, meccanismi che non funzionano».

Sono comunque arrivate offerte oltre a quella di Salisburgo?

«A Montecarlo mi hanno chiesto di fondare un'orchestra, Les musiciens du Prince, si partirà nel 2016».

È artefice di progetti speciali. Una Norma stile Magnani, un racconto di spionaggio dietro al cd Steffani, un tour con bus al seguito con oggetti di una delle più grandi cantanti d'Ottocento, Maria Malibran. Mai pensato a operazioni crossover stile Tre tenori?

«Faccio già del crossover, nel senso che riesco a portare “al di là” tanta gente, attirando pubblico verso un repertorio meno conosciuto. Vivaldi vendette un milione di copie, Sacrificium 700mila copie. Vuol dire che queste operazioni funzionano».

Ma i Tre tenori le piacquero?

«Alla fine sì. A Caracalla furono un'esperienza notevole. Non sono contraria a tutto questo se aiuta la musica e attrae nuovi spettatori».

Canterebbe con colleghi della leggera?

«Mi piacerebbe contare con Sting. Il suo cd dedicato a Dowland mi conquistò. Però dovrebbe esserci un progetto sensato e condiviso. Cantare per cantare in un concertone non mi interessa».

Lei è donna concreta. Ha già lanciato la proposta?

«Con Sting ero coinvolta in una stessa trasmissione televisiva in Germania, così ne parlammo. Poi ci siamo persi di vista. Ma sarei sempre disponibile».

Quindi non disdegna la musica extra-classica...

«Mi piace il rock, anche se mancano i gruppi tosti di un tempo come i Pink Floyd o i Rolling Stone. Un giorno, ero a Toronto per un concerto, e in hotel mi sono ritrovata in ascensore con Mick Jagger. Ho pensato, è proprio strano il mondo. Stasera ci saranno persone che seguiranno il mio concerto e altre che andranno a quello di Jagger».

Porta la musica d'Italia nel mondo, ha avuto un lungo soggiorno americano. Vive oltre confine. Ma cosa porta con sé dell' Italia tradizionale, quella della nonna contadina che, ottantenne, prese l'aereo per New York per sentire la nipotina che aveva sfondato?

«Mi porto tutto, compreso il ricordo di nonna Libbia. Ho in testa l'immagine di lei che, sotto il sole cocente e nell'umidità della pianura padana, raccoglie i pomodori. Come dimenticare il sudore di quelle donne, il loro canto. E poi il grande sacrificio, gli sforzi, per me tutto questo è stato un modello concreto. Sono di Roma, ma i miei genitori sono emiliani e romagnoli, e ho speso tanta mia infanzia con la nonna. In Italia sono stata vent'anni filati, i miei primi, quelli della formazione e delle fondamenta. Questo Paese mi ha dato molto».

E lei cosa sente di avere dato all'Italia. Tanti la criticano perché canta poco da noi.

«Sono stata la prima, per esempio, a portare Cenerentola di Rossini a NY, tuttora canto il repertorio italiano e lo faccio circolare nel mondo».

Prossimo progetto?

«Questa volta mi piacerebbe lavorare al Rinascimento, quindi Monteverdi, Caccini, Strozzi. Non c'è nulla di concreto, però c'è questo un forte desiderio».

Domanda frivola. Va sempre in scena con abiti spettacolari. Dove li pesca?

«Spesso sono di Vivienne Westwood, è bravissima nel confezionare corsetti che seguono il corpo e consentono di respirare con agio. Lei riesce a soddisfare le esigenze di noi cantanti. Rimaniamo in apnea per un bel po', quindi abbiamo bisogno di abiti che seguano e rispettino il nostro respiro. Per il dopo concerto, punto su Armani, finalmente pensa anche alle donne più in carne come me».

La Bartoli è nota per il virtuosismo spericolato. È una scavezzacollo nella vita?

«Non troppo. Anzi. Con la voce amo poter volare ma per il resto sono piuttosto prudente. In generale, poi, il vero coraggio non sta nell'avventurarsi in imprudenze ma nel superare le paure».

Superata quella del palcoscenico?

«Non proprio. Dicono che col tempo si supera la paura. Non è assolutamente vero. Con gli anni conosci meglio il tuo strumento vocale, in compenso aumentano le responsabilità dello stare sulla breccia da anni.

Temi di non rispondere alle aspettative del pubblico».

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