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Valentino, reduce di Russia e commilitone di Prisco

Di Franco, 96 anni, perse le gambe nella Campagna del Don: «Ai ragazzi racconto guerra e pace»

Cristina Bassi

Nessun reduce è più reduce di Valentino Di Franco. Se si possono paragonare tra loro i soldati che hanno fatto la guerra, che ci hanno lasciato una parte di sé e sono tornati a casa vincendo su un destino segnato, Di Franco merita un posto d'onore. Non solo perché ha 96 anni e ancora gira per le scuole a raccontare ai ragazzi cos'è stato davvero il conflitto mondiale per un 20enne partito nel 1942 da Isola del Gran Sasso, in Abruzzo, e disperso nella steppa russa. «Sono un miracolato - dice - dovevo morire in Russia e invece eccomi qui».

Valentino non esce mai senza il suo cappello da alpino. Scandisce la propria vita con una sintesi dantesca: «Ho fatto il purgatorio, da piccolo non avevo niente. Poi ho vissuto l'inferno bianco e gelido della guerra e della ritirata dal fronte del Don. Ho sofferto tanto, a causa del freddo mi hanno amputato tutt'e due le gambe. Oggi sono felice, sono in paradiso. Il 23 di novembre compio 97 anni. E sono più di 70 anni che qui non c'è la guerra». Quanto valga la pace, concetto astratto per molti, è proprio quello che Di Franco prova a trasmettere ai giovani che incontra. A lui sono toccati otto giorni e otto notti sotto la neve a meno 40 gradi, lasciato indietro dalle truppe italiane che ripiegavano inseguite dall'Armata Rossa. «Poi camminai per 30 chilometri, una notte intera, nella steppa, da solo. Si avvicinò una slitta di soldati tedeschi, cercai di aggrapparmi. Ma uno di loro mi fece cadere picchiandomi sulle dita con il calcio del fucile. Ero quasi privo di sensi, quando sentii una voce che diceva: Alzati che ce la fai». La morte dei commilitoni e degli amici. «Non lascio mai i miei fratelli caduti sul campo di battaglia. Non dimentico Ferdinando Santilli, di Ortucchio. Era il 20 dicembre 1942 quando sotto un bombardamento aereo Ferdinando mi morì tra le braccia». Ancora: gli interventi chirurgici, la perdita degli arti inferiori sotto il ginocchio, il dolore. I ricordi che a volte pesano: «Ora sono molto emotivo...», dice per giustificare la commozione.

Degli 80mila soldati italiani mandati in Russia, ne tornarono solo 18mila. Moltissimi amputati. I caduti abruzzesi a Selenyj Jar, oggi nell'entroterra ucraino, furono un gran numero. Di Franco è l'ultimo reduce della Campagna di Russia tra i giovani del Nono reggimento alpini dell'esercito, che ancora oggi ha sede all'Aquila. Anche per Valentino al ritorno a casa è stata dura. «Ma avevo la voglia di vivere - spiega -, non mi sono mai abbattuto. Nel 1948 mi sono sposato con Elvira, che purtroppo non c'è più. Mia moglie mi ha aiutato a riprendermi, poi la mia famiglia, gli amici, gli alpini... Sono stato accolto». Dopo il matrimonio Di Franco apre un banchetto di oggetti religiosi vicino al santuario di San Gabriele dell'Addolorata. Nel 1956 la famiglia si trasferisce a Monterotondo, non lontano da Roma, dove porta avanti prima un negozio di scarpe e poi un bar. «Ho sempre lavorato, nonostante le difficoltà», sottolinea l'anziano alpino. Oggi ha quattro figli, sei nipoti e sei pronipoti. «La più grande dei pronipoti ha 19 anni, ha appena preso la patente. Potrei persino diventare tris-nonno».

Sullo stesso campo di battaglia, stesso Reggimento, c'era il sottotenente Giuseppe Prisco, detto Peppino. «Era legatissimo agli alpini e anche agli abruzzesi», dice ancora Valentino. Che racconta: «Non ci siamo conosciuti al fronte. Eravamo commilitoni, ma non lo sapevamo. Vent'anni fa però, all'adunata a Isola ci siamo incontrati e ci siamo abbracciati. Ci siamo ricordati di quel 13 dicembre 1942, Santa Lucia, quando io andai al suo campo per salutare due miei amici. E cucinai la pasta per tutti». Valentino recita a memoria Natale 1942, la poesia scritta da Prisco: «C'era Gesù, tra noi, nelle trincee presso il Don...»

Di Franco è appena rientrato dall'incontro con l'ennesima scolaresca, accompagnato dalla figlia Angela. «Cosa mi chiedono i ragazzi? Quanti ne hai ammazzati?, Hai avuto paura?, curiosità di questo tipo. Rispondo che in quei momenti non ho avuto paura, ma che oggi nel ricordare mi trema la voce. Nel raccontare il mio coraggio, mostro alle nuove generazioni cosa hanno fatto i loro nonni e bisnonni per fare questa bella Italia. Gli ripeto che devono essere orgogliosi». Valentino non ha tempo di annoiarsi. Lo scorso compleanno lo ha festeggiato davanti alle telecamere della Vita in diretta. «Mi invitano da tutte le parti - continua -, alle parate, alle cerimonie militari. Mi dispiace molto infatti di non poter essere a Milano per l'adunata. Dal mio diario è stato anche tratto un libro». Scritto da Miriam Vitiello nel 2003, si intitola L'urlo della Katjuscia (edizioni Eco), dal nome di un lanciarazzi sovietico. E Dario Franceschelli ha realizzato una serie di filmati dal titolo La guerra in casa. «Si parla di sacrificio, sofferenza e guerra. Ma anche d'amore. Si vede pure mia moglie», aggiunge il reduce. Poi conclude: «I ragazzi dell'esercito mi vogliono tutti bene. Mi vengono a salutare prima delle missioni. Mi hanno mandato una foto di uno striscione che hanno appeso in una base chissà dove. Diceva: Valentino, sei con noi. Adesso però dobbiamo fare una video chiamata, così ci vediamo in faccia». Sorride seduto al tavolo, con le carte da burraco. Alle pareti decine di foto e di ricordi, il riconoscimento del presidente della Repubblica, la coperta della Roma sul letto.

Saluta a due mani.

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