Cultura e Spettacoli

La vecchia volpe delle lettere

La vecchia volpe delle lettere

La chiave, la soluzione, la spiegazione, la consolazione arrivano nella prima riga, in prima battuta, con l’annuncio del disastro. «Ruina! Ruina!» era in fondo la notizia. Così almeno era scarabocchiato «in fondo al messaggio di addio per la nonna» che il nonno si era lasciato dietro prima di buttarsi nella palude dell’Estremadura, sulla costa dell’isola caraibica di San Pedro, e metter fine ai suoi giorni sciagurati di agricoltore rimasto senza terra. In coda al suo finale, però, nonno Isidro Sanchez aveva lasciato scorrere un incipit di romanzo.
L’inizio di una storia. La nota che intonava una narrazione. Non poteva esser più chiara. Tracciata com’era, incisa quasi, con la punta della penna «che doveva esser quasi secca perché raspava sulla carta». Posta in bella mostra su un foglio di carta strappato, «ripiegato con la precisione di quando faceva le barchette per noi nipoti» e sistemato al centro del tavolo della cucina. Ripetuta mille volte dalla destinataria del biglietto, la nonna vedova, prima autrice delle mille variazioni vocali di un racconto recitato «in un tono ancora stupito dopo tanto tempo». E messa in chiave sulla prima pagina del capolavoro di Paula Fox, A Servat’s Tale. Quella nota - lacerante come lo strappo d’una separazione, ma vibrante e decisiva della tonalità di una partitura - non potrebbe sfuggire a nessuno che, a oltre vent’anni dalla sua composizione, torni a ascoltarne gli sviluppi. Magari nella versione messa a punto con straordinaria, musicale sintonia da Gioia Guerzoni: Storia di una serva (Fazi, pagg. 446, euro 18).
Quando tutto è perduto, «Quello che rimane» è sempre una storia da raccontare. Di tutte le storie che in una vita ritmata da distacchi e riprese, intervalli e ritorni, abbandoni e riscoperte, l’ottantacinquenne Paula Fox non ha mai smesso da capo al fine di variare, questa, scritta nel 1984, è la preferita dall’autrice. Perché? Non che sia «più sua», non che le appartenga più delle altre la storia di Luisa Sanchez de la Cueva, la protagonista e voce narrante del romanzo, la nipote del «ruinato» suicida cui nonna Paula infonde per prodigio autoriale e rimarcata affinità familiare la propria voce. Di sé, della propria infanzia turbolenta, dei rovinosi intrecci e le intriganti avventure di famiglia la Fox ha raccontato infinite volte. Prima che nel memoire autobiografico uscito in Usa nel 2002 - Borrowed Finery -, oltre che in decine di narrazioni per ragazzi - favole ispirate alla più innocente ferocia infantile e pubblicate dai primi anni Sessanta alla fine degli anni Novanta -, più esplicitamente che attraverso la maligna reticenza di Il silenzio di Laura (Fazi, 2004) - l’originale The Widow’s Children del ’76 scritto per vendicarsi della crudeltà della madre che volle escluderla dalla notizia della morte dell’amatissima nonna latina -, di sé la Fox raccontò nell’emblematico Quello che rimane (Fazi, 2003).
Cioè nel romanzo del 1970 che, dato alle stampe con il titolo malaugurato di Desperate Characters, buttato dietro di sé come un messaggio nella bottiglia prima di cadere nell’oblio alla maniera di nonno Isidro - «un uomo che era fuggito nel buio lasciandosi dietro solo una parola scritta» -, le valse più d’un clamoroso rientro in scena.
Rientrò anzitutto, sia pur silenziosamente, sulle scene di Hollywood: con il film tratto dal libro, girato da Frank D. Gilroy e interpretato da Shirley MacLaine, grazie al quale la scrittrice allora ignorata dai lettori incassò i 35mila dollari di diritti d’autore e comprò la villetta stile inglese a Cobble Hill, Brooklyn, dove si ritirò tranquillamente nell’ombra in compagnia del terzo marito. (Ri)salì soprattutto sulla ribalta del culture-business e fino al top delle classifiche editoriali dacché una squadra di scrittori under forty, quella vincente capitanata da Jonathan Franzen, ne fece il proprio modello e il proprio emblema. Così, da quasi un decennio, dopo una giovinezza da bad girl e una maturità da dark lady, la riscoperta Fox sta ora vivendo la sua rinascita da american classic.
Dei suoi mille volti, gli eredi dell’ultima generazione letteraria non hanno che da scegliere quello in cui meglio riconoscersi. Perché dal 22 aprile 1923 della sua nascita a oggi l’eletta capofila è stata nell’ordine: figlia dimenticata di Paul Hervey Fox, il padre sceneggiatore disastrosamente bello, rovinosamente alcolizzato, «complice e traditore» che con l’ultimatum «o io o la piccola» indusse la consorte a abbandonarla. Neonata ripudiata da Elsie, la Laura de Il silenzio di Laura: l’odiata madre che di avere bambini non ne voleva sapere, di aspettar lei si accorse tardi e alla nascita la affidò a un orfanotrofio di Manhattan. Figlioccia del reverendo Elwood Corning («la mia prima conquista»), che la raccolse dal brefotrofio e l’accudì fino ai tempi della scuola. Nipotina dell’iberica nonna che la portò con sé a Cuba nella piantagione di canna da zucchero del marito (l’Isidro del suicidio!).
Ma ancora: minorenne in trasferta a Hollywood dove, durante la guerra, fu commessa in una boutique, decoratrice di ceramiche, trapanatrice in un’acciaieria, lettrice per conto della Warner Bros di manoscritti cileni e argentini (quasi sempre bocciati). Sposa bambina del suo primo uomo, un marinaio e attore part-time al Mercury Theatre di Orson Welles: «Non mi piaceva. Non volevo sposarlo - avrebbe detto di lui -, ma sentivo che dovevo dire di sì agli uomini». «Anche alle donne» però, e dunque: moglie fedifraga in fuga con una ventenne a Palm Springs. Per un incidente, mamma teenager di una bimba data in adozione appena venuta alla luce (se ne pentì 10 giorni dopo, ma era tardi le dissero...). Emigrante in Europa nel Dopoguerra: a Londra nel ’46, da lettrice di sceneggiature per la 20 Century Fox. Rientrata a New York è studentessa attempata alla Columbia University che il secondo marito la mise in condizioni di frequentare. Anche il secondo matrimonio, nonostante i due figli, naufragò. Ma neanche allora la signora Fox si sarebbe fatta travolgere dalle tempeste coniugali e familiari. Sposa per la terza volta nel 1962, di Martin Greenberg, il traduttore americano del Faust di Goethe e di von Kleist, avrebbe continuato a lanciare i suoi messages in a bottle sotto forma di racconti e di romanzi. Tutti veri.
Perché «la differenza tra una storia e una bugia è che questa nasconde una verità, quella cerca di trovarla», dice Luisa in A Servant’Tale. È più vera delle altre questa Storia di una serva, perché la più vicina alle esperienze caraibiche che nonna Paula visse da nipote. Più intima delle altre, perché affidata a memorie extralinguistiche - del «profumo scuro della canna da zucchero», la «densa dolcezza del dulche de leche», «i colori vivaci di un serpentello che mutava la sua pelle», «le tinte giallo, azzurro, arancio delle capanne più vicine all’aria durante la stagione delle piogge» - riacciuffate ex post con la maestria delle parole. Più fedele: alla promessa della bimba protagonista che, strappata all’isola e alla sua nonna dopo la «Ruina!», giura a se stessa: «Ci tornerò, vedrai». E la più infedele. Perché pronta a tradire, a mentire, a smentire la nonna che rassegnata sentenziava: «Un tempo tutto era più serio, ogni cosa aveva la sua importanza, non come adesso, che una vale l’altra e non ci sono più storie».

Pronta a dare a Luisa i panni più miseri nella New York anni Cinquanta della sua emigrazione, il ruolo più umile nella famiglia borghese che la prende al suo servizio, la voce più adatta per raccontare senza dire bugie la Storia di una serva.

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