Cronaca locale

Il vecchio boss deriso prese il mitra per vendicare l’onore

Andò più o meno così.
«Guarda che io sono Colia».
«E chi se ne frega».
Che un’era fosse finita lo si era intuito già il 31 ottobre scorso, quando i carabinieri del Nucleo Operativo avevano arrestato lui, Pinella, all’anagrafe Antonio Colia, una leggenda della malavita milanese, il vero cervello della banda della Comasina (altro che quello sbruffone sciupafemmine di Renato Vallanzasca!) per un omicidio da quattro soldi. Ma adesso che si va verso la fine delle indagini su quell’omicidio, che i verbali e le intercettazioni vengono depositate, di quell’intuizione arriva la conferma più desolante. Perché le sventagliate di mitra che nel tardo pomeriggio del 26 settembre 2006, nel campo nomadi di via Stephenson, mandarono al creatore lo zingaro Riccardo «Ricky» Fros e quasi ammazzarono tre della sua famiglia sono la colonna sonora di un capitolo conclusivo. Quel giorno la vecchia malavita milanese, la mala dei sopravvissuti, ha dovuto prendere atto di non contare più nulla. Che le praterie del crimine - mentre i vecchi boss erano in galera - sono state invase da nuovi lupi senza storia e senza rispetto.
La storia - come la si legge nei rapporti dell’Arma - è semplice. Pinella ha bisogno di una partita di cocaina. Manda un tizio, un colombiano, a prenderla in Spagna, ma il colombiano si fa arrestare. Allora Colia inizia a chiedere in giro e, a furia di passaparola, arriva fino a un balordo di Affori che si chiama Luciano Sberna e che campa vendendo droga fasulla insieme agli zingari del campo di via Stephenson: «Per guadagnare qualche soldo - racconterà poi Sberna - io e il mio amico Massimo Hudorovic abbiamo deciso di mettere in commercio della fuffa spacciandola come cocaina. In realtà si trattava per lo più di materiale da taglio». Ai bei tempi, a nessun delinquente sano di mente sarebbe mai venuto in mente di proporre un bidone del genere proprio a Colia. Ma né Sberna né Hudorovic sanno chi diavolo sia Colia. Così si vedono ai giardinetti e in cambio di trentanovemila euro in contanti gli rifilano un chilo di fuffa, di roba da taglio. E via.
Ma ancora più surreale è quello che accade dopo. Colia si accorge del bidone, va su tutte le furie, chiama Sberna e si fa passare Hudorovic. Ed ecco come lo zingaro racconta il dialogo con il boss sessantenne: «Appena preso il telefono, il Pinella mi diceva che prima di iniziare a parlare avrei dovuto sapere chi lui fosse. A tali parole, e vista l’arroganza del mio interlocutore, cercavo di fargli capire che non erano più i tempi di una volta in cui si poteva fare ciò che si voleva e, comunque, il suo atteggiamento non mi intimoriva. Visto che l’uomo non accennava a smorzare i toni, chiudevo la conversazione dicendogli che non c’erano più i presupposti per continuare». Insomma, il rom gli riattacca il telefono in faccia. Ai bei tempi non succedeva. Proprio no.
Così Pinella organizza la spedizione punitiva. Arruola un altro sopravvissuto, Tino Stefanini, e insieme ad altri tre si armano fino ai denti e fanno irruzione in via Stephenson sparando come dei matti, un morto e tre feriti. Peccato che Stefanini - un altro che non si arrende al crepuscolo - sia intercettato in diretta dai carabinieri che lo tampinano per una serie di rapine. Quattro giorni dopo, in una perquisizione in un covo affittato da Stefanini, saltano fuori le armi. Il resto è un’indagine in discesa.

Il 31 ottobre, quando lo vanno ad arrestare, Colia chiede di farsi una doccia, ringrazia perché non gli mettono le manette davanti alla vecchia madre e si fa portare via senza fare storie.

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