Cultura e Spettacoli

Le «veline» sovietiche per gli antifascisti doc

Nel giugno del 1935, si svolgeva a Parigi il congresso «Per la difesa della cultura» contro la barbarie totalitaria nazista e fascista, che registrava la partecipazione attiva di numerosi intellettuali europei delle più varie tendenze politiche. L’evento, che oggi è possibile ricostruire nel dettaglio grazie al volume curato da Sandra Teroni e Wolfang Klein (Pour la défense de la culture. Les textes du Congrès international des écrivains, Paris, 1935, Presses Universitaires de Dijon, pp. 666, euro 40), fu gestito dagli organizzatori in modo da trasformare la mobilitazione intellettuale contro le dittature di Hitler e Mussolini in una acritica apologia dell’ideologia marxista e del ruolo egemonico dell’Urss nella lotta contro i fascismi europei.
Fortemente voluta dal Comintern, sul quale ricadeva il peso finanziario dell’iniziativa, l’adunata parigina doveva infatti reclamizzare la svolta politica che aveva portato Stalin ad abbandonare la dottrina del «socialfascismo» a favore della strategia del «fronte popolare», che, puntando sull’alleanza tra proletariato e borghesia progressista, aveva favorito, appena un mese prima, il patto di mutua assistenza tra Mosca e Parigi. Dati questi presupposti, i partecipanti all’incontro parigino erano tenuti ad osservare un protocollo non formalmente ratificato (ma non per questo meno vincolante), secondo il quale potevano essere denunciati gli orrori di ogni regime politico, salvo quelli perpetrati dalla Russia comunista. L’Unione Sovietica era infatti il «baluardo della vera cultura», avrebbe sostenuto un confuso poligrafo italiano, come Guglielmo Ferrero, e di conseguenza ogni pensatore onesto aveva il «dovere di difenderla» da ogni critica, persino al di là dell'evidenza dei fatti.
Contro questa strumentalizzazione, portata avanti durante i lavori da molti, oscuri funzionari del Pcus ma anche da noti intellettuali, come Brecht, Nizan, Aragon, Barbusse (persino Gide), reagivano però Benda, Musil, Huxley, ma soprattutto Gaetano Salvemini. Lo storico italiano articolava la sua relazione sulla differenza radicale tra società borghesi aperte al «soffio della libertà» e Stati totalitari, di diversa coloritura ideologica, ma tutti costituzionalmente liberticidi. Da questo punto di vista, poca differenza esisteva tra bolscevismo, fascismo e nazismo e nessuno poteva sentirsi in diritto di «protestare contro la Gestapo e l’Ovra di Mussolini», dimenticando l’attività della «polizia politica sovietica», facendo finta di non sapere che, se in Germania si costruivano lager e in Italia alcune isole erano state trasformate in ergastoli, «nella Russia sovietica vi è la Siberia», infine, tacendo sul fatto che esistevano «proscritti tedeschi, italiani» ma anche più numerosi «proscritti russi».
A Salvemini replicava il comunista italiano, Ambrogio Donini, accusandolo di aver voluto dividere, con quelle parole, l’unità del fronte antifascista. La disputa non si interrompeva qui e continuava con maggior asprezza sulle pagine di Stato operaio (organo ufficiale del Partito comunista d’Italia), dove, sempre Donini, sosteneva, nel numero di agosto, che il «Prof. Salvemini ha aperto una breccia, attraverso la quale potranno passare il gruppetto di provocatori trotzkisti, che trovano la loro unica ragion d’essere nella lotta contro i comunisti, i costruttori del socialismo e l’avanguardia rivoluzionaria del proletariato».
Sul merito di queste calunnie, ribatteva la rivista di Giustizia e Libertà (il movimento dell’emigrazione liberalsocialista, vicino a Salvemini), che definiva il Congresso per la difesa della cultura un palcoscenico messo a disposizione della delegazione sovietica, la quale aveva avuto la possibilità di esibirvisi liberamente con «tirate da osteria e tracotanza da caporali».
La contesa rendeva evidente quanto difficile e in fondo assolutamente non praticabile fosse l’alleanza tra antifascismo democratico e antifascismo comunista, come già aveva dimostrato, nel 1931, la furibonda polemica intrapresa da Togliatti contro Nello Rosselli. Sempre sulle pagine di Stato operaio, il «compagno Ercoli» aveva definito il fondatore di Giustizia e Libertà un piccolo intellettuale borghese, irretito nell’armeggio ideologico e nel doppiogioco politico, il quale aveva intrapreso la scellerata operazione di creare una forza autonoma dal comunismo, sul terreno della lotta contro il fascismo.
Di lì a qualche anno, le armi della critica cedevano il passo alla critica delle armi nel corso della lotta intestina tra le forze antifasciste europee, che avrebbe avuto come teatro la Spagna sconvolta dal conflitto civile. Nel 1937, Nello Rosselli era trucidato da una formazione dell’estrema destra francese, probabilmente al soldo dell’intelligence militare italiana, ma anche fortemente infiltrata dalla famigerata Nkvd sovietica (progenitrice del Kgb), artefice della «grande purga» contro gli avversari di Stalin dentro e fuori i confini dell’Urss, che culminerà con l’uccisione di Trotzkij.


eugeniodirienzo@tiscali.it

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