Cultura e Spettacoli

Veltroni, quanta fretta di tagliare il nastro dello scempio «modernista»

L’inaugurazione ieri a cantiere ancora aperto fra lo sconcerto di invitati e cittadini

Anche la pletora di assessori, sovrintendenti, riccastri «de sinistra», giornalisti, cineasti e architetti, giunti per compiacere il sindaco di Roma Walter Veltroni, riusciva ieri con difficoltà a fare buon viso di fronte alla «sistemazione» dell’Ara Pacis realizzata dall’architetto americano Richard Meier (costo circa quaranta milioni di euro). Se Veltroni cercava una passerella elettorale tagliando in tutta fretta a cantiere ancora aperto il nastro della «nuova Ara Pacis», è stato male consigliato. Lo scempio architettonico di Meier è infatti colpa della cultura progressista che non ha mai contestato ciò che appariva un fiasco annunciato. L’indicibile puzzonata offusca letteralmente, con tanto di parete muraria simile a cartongesso divisa da vetrate, i nobili monumenti (le due chiese di S. Rocco e S. Gerolamo degli Schiavoni) raccordati ai bastioni alberati del Lungotevere con le buone regole previste negli anni Trenta dall’architetto Vittorio Morpurgo.
Meier è un architetto famoso ma di storia non capisce nulla o non gliene importa nulla. Anche uno sprovveduto avrebbe potuto prevedere che uno come lui opera con efficacia nei deserti del Texas oppure nei perimetri di metropoli senza stratificazioni di linguaggio e cultura. Il dosaggio delicato tra l’antico e il contemporaneo è impresa non affidabile a tipi così. Tanto più se si ha la malaugurata presunzione di non apprendere dalla tradizione moderna italiana (e soprattutto romana) che nei suoi esempi migliori (da Piacentini, a Libera, a Del Debbio) si è misurata col problema ottenendo risultati finora insuperati. Il modernismo «antistoricista» è sempre stato una brutta bestia, fin dall’epoca delle famose demolizioni mussoliniane che fecero perdere a Roma l’aura pittoresca degli acquarelli di Roesler Franz. Ma si trattava di rose e fiori al paragone di oggi. Allora gli sventramenti rispondevano ad una idea-forte della città (la «nuova Roma») pensata in coerente accordo del classico e del moderno. Oggi tutto ciò accade nella confusione e nella ignoranza totale del disegno urbano. Se si pensa poi che la nuova Ara Pacis, oltre a soffocare come uno shopping center il complesso dell’Augusteo, esibisce in fronte-strada anche un mosaico del pittore postmoderno Mimmo Paladino in stile «romaneggiante», tutti capiscono a quale pasticcio si è arrivati.

Ciò che resta dell’altare di Augusto diventa un pretesto per lo sfogo di «creatività» senza costrutto in un luogo dove è passata nel tempo l’intelligenza compositiva di Pietro Da Cortona (la cupola di San Rocco), di Specchi (autore del Porto di Ripetta), di Sarti (autore dell’Accademia d’Arte), di Canova (nei pressi il suo studio), del Valadier e poi nel ’900 di Vittorio Morpurgo e Ferruccio Ferrazzi (vedi il suo mirabile mosaico dedicato al Dio Tiberino).
E cosa dire di tutti coloro che queste verità conoscono bene (storici, sovrintendenti, architetti, scrittori, professori) ma che hanno preferito «non disturbare il manovratore»?

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