Controcultura

"La vera letteratura vive di ossessioni La mia? È l'infanzia"

I grandi scrittori parlano con i propri demoni e per farlo inventano una lingua. Ecco il catalogo

"La vera letteratura vive di ossessioni La mia? È l'infanzia"

Ognuno ha le proprie ossessioni, che cerca di tenere a bada come può. Michele Mari, romanziere tra i pochissimi amati sia dal pubblico mainstream sia dalla critica d'élite, è da anni impegnato a rinchiudere le sue ossessioni letterarie (ossia gli scrittori che ha letto e rilegge, di cui è figlio letterario, che continua a citare e a «riscrivere», da Tasso a Stephen King) in una galleria di ritratti in forma di libro che diventa sempre più grande: I demoni e la pasta sfoglia apparve la prima volta nel 2004 da Quiritta - «Erano 400 pagine...» - poi fu ripubblicato nel 2010 da Cavallo di Ferro - «A quel punto erano diventate 600» - e oggi riappare dal Saggiatore: «E siamo a 750... Tendenzialmente potrebbe espandersi ad infinitum», fino a coincidere con l'intera storia della letteratura, come in quel racconto in cui Borges sogna (ecco un'altra ossessione) di rappresentare la Terra con una mappa in scala 1:1. Il libro di Mari è uno strano catalogo delle ossessioni nella letteratura e insieme una singolare storia della letteratura come ossessione. Dentro ci sono tutti i «suoi» scrittori. Diversissimi per lingua, epoca e «genere». Ma uguali in...

In che cosa sono uguali, i tuoi scrittori?

«Nell'essere tutti posseduti da un qualche demone, nell'essere visionari, nell'avere patito ferite e violenze, che però hanno esorcizzato e sublimato con la forma, cioè la pasta sfoglia del titolo... Scrittori che hanno trasfigurato per via stilistica le loro nevrosi. Come Gombrowicz, Kafka, Canetti...».

Come Gadda.

«Come Gadda, che nella Cognizione del dolore carnevalizza un mondo straziante, lo sudamericanizza, lo rinventa inventando una nuova lingua... E lui, così ordinato e pudico, si trasforma in Gonzalo Pirobutirro, il suo alter ego, capace di divorare un'aragosta delle dimensioni di un neonato...».

E come Lovecraft, come Hofmannsthal, come il Mervyn Peake della trilogia di Gormenghast...

«Scrittori disperati, misantropi, chiusi nel loro mondo, magari cattivi, o politicamente intollerabili come Céline. Ma con un senso dell'umorismo strepitoso, divertenti... Autori che si sono alleati con la letteratura per vendicarsi della vita».

Come te?

«Forse è perché li ho letti e amati così tanto che tendo a vedere l'esistenza e la letteratura su due piani separati: fin da ragazzo il darmi agli studi era un modo per sottrarsi alla vita, o per vivere una vita di secondo grado, che è lo stesso. Il fatto che io scriva i miei romanzi con uno stile letterario, libresco o artefatto non è per nulla una cosa artificiale. Ma naturale. Perché il mondo dei libri, e di quei libri in particolare, è diventata una seconda natura».

Che cosa deve fare uno scrittore per entrare nel tuo canone-mondo?

«Deve coltivare morbosamente, feticisticamente, le proprie idiosincrasie, i propri furori, i propri desideri ossessivi. Deve soprattutto essere se stesso, fino in fondo. Non deve conformarsi alla koinè, alla lingua comune. Deve inventarne una sua. Deve fregarsene del mondo, e crearne - anche deformandolo, ricostruendolo - uno proprio. Come fecero Landolfi, Buzzati, Manganelli...».

Ma non fecero i neorealisti, Vittorini, Moravia...

«No, infatti. Vittorini era un grande funzionario editoriale. Non uno scrittore. Moravia era... era mainstream... Non mi piacciono gli scrittori che sentono l'assillo di fare i conti con il proprio tempo... Il mio esordio come romanziere, Di bestia in bestia, è del 1989: anni di tondellismo imperante, del minimalismo... Io non c'entro niente con quel mondo».

Infatti qui dentro Tondelli non c'è.

«Qui dentro non ci sono scrittori generazionali. Così come io voglio essere uno scrittore a-generazionale. Non ho mai avuto il culto, come i miei coetanei, di Bukowski, di Salinger, di Carver...».

Né di McInerney, di Bret Easton Ellis...

«Se devo cercarmi dei maestri, allora preferisco andare a leggermi Melville. È più o meno quello che ho scritto una volta pensando agli scrittori del gruppo TQ. Perché concedersi un orizzonte di vent'anni quando la letteratura ce ne regala almeno 2.800, di anni? Voglio dire: c'è una Tradizione...».

Tu dici che gli scrittori contemporanei hanno perso il senso della Tradizione, e compensano la mancanza di profondità con la quantità.

«Le opere-mondo di migliaia di pagine... Pynchon, Foster Wallace, Bolaño... Vorrei dire no, grazie. Ma per onestà intellettuale non mi pronuncio. Ammetto il mio analfabetismo come lettore».

Che cos'è la Tradizione

«È diventare se stessi dopo aver modulato la voce degli altri. Io sono diventato scrittore perché ho fatto il verso agli altri... Certo, poi ognuno ha i suoi altri. Io mi sono sbilanciato sul versante del pastiche, ma ognuno ha la Tradizione che sente affine. Io tra i neorealisti e Landolfi, scelgo Landolfi. E tra Manzoni e Foscolo scelgo l'Ortis. Non amo gli scrittori che vogliono scrivere un libro per tutti, che sognano il libro popolare, nazionale... I capipopolo, i pedagoghi: in letteratura non mi piacciono. Ma sto divagando. Il punto è un altro: se io non faccio i conti con la Tradizione, rinuncio alla dimensione primaria della letteratura che è, scusa la tautologia, la letterarietà».

La Tradizione dove si ferma?

«Una bella botta gliel'ha data internet. I miei studenti universitari non vanno più in biblioteca. Vogliono scaricare tutto. E ciò che non possono scaricare, non esiste. Comunque, se devo mettere dei paletti cronologici...».

Mettiamoli.

«Be', in Italia penso che la letteratura arrivi fino a Bufalino. Poi ci sono alcune cose di Del Giudice, Cordelli e pochi altri. Dopo... non lo so. Io come lettore mi fermo».

E per la letteratura non italiana?

«L'ultimo grande è stato lo Steinbeck di Uomini e topi: un autore che per la sua potenza preferisco a Faulkner, troppo progettuale, troppo cerebrale. E tra i viventi dico Cormac McCarthy, che scrive dei western moderni alla Herzog. E Stephen King, ma senza calcolare gli ultimi dieci anni di decadenza».

A te la letteratura d'impegno civile non interessa. Pasolini, Sciascia, Saviano...

«Un conto è il testo come azione, come gesto. Non come letteratura, che è un'altra cosa. Émile Zola mi piace per ragioni stilistiche, non civili. Il fatto che difendesse Dreyfus semmai me lo rende simpatico. Ma non basta a farne un grande scrittore. E infatti fra Malraux e Céline, scelgo Céline. Ma anche tra Camus e Céline scelgo Céline».

Anche se era nazista.

«Il problema è che i media e la scuola hanno alimentato l'equivoco secondo cui se uno scrittore è schierato, diciamo così, dalla parte del Bene, allora è un grande scrittore. Oltre che falso è un ricatto morale. Io ho frequentato scuole medie in cui insegnanti progressisti e illuminati crescevano piccoli antifascisti a dosi di Primo Levi, facendo passare l'idea che Se questo è un uomo e La tregua fossero automaticamente grande letteratura. Ma se lo sono è per via stilistica. E ancora più belle sono le Storie naturali che Levi pubblicò sotto pseudonimo perché si vergognava di fare letteratura pura... Quando invece la letteratura pura, quella che lascia da parte l'impegno e si abbandona alle proprie ossessioni, è la più alta».

E la tua ossessione, qual è?

«Quella di vivere la vita come un lutto continuo rispetto alla mia infanzia, per la quale ho un assillo nostalgico, nevrotico. Ma non perché era un'età d'oro, anzi: è stata piena di traumi e di lutti. Ma perché è stata la cosa più significativa che ho vissuto. È quello che racconto nel mio nuovo romanzo, il mio libro più autobiografico in assoluto, Leggenda privata, che uscirà tra pochissimo».

E che cosa c'è dentro?

«Tutti i miei feticci: i miei fumetti, Salgari, Jack London, la casa di famiglia sul lago... Io sono quelle cose lì.

Insieme alla velleità iterativo-compulsiva di trasformare in cristallo lo gnommero mondano».

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