Stile

Vermi, miti e deserti di uno spirito da duri

Viaggio fra i segreti del distillato di agave più amato dai barman. Prodotto come ai tempi degli Aztechi

Marco Zucchetti

Riuscire a distinguere il mito dalla realtà quando si parla di un distillato sgorgato dai 40mila seni di una dea azteca è piuttosto complicato. Perché nessuno spirito al mondo è così intriso di esoterismo, fiaba e sensualità come il mezcal, il «sangue del sole» messicano.

Eppure la realtà è ancora più incredibile. E dice che questo prodotto ruvido e primordiale derivato dall'agave è oggi il re della mixology e vive un'impennata di vendite (negli Usa +279% dal 2005). Merito del gusto unico che intriga i bartender, del nome evocativo e della qualità ritrovata da quando nel 1995 ha ottenuto il marchio DOC. Ma merito anche di chi - come gli italiani di Rossi&Rossi, importatori dell'etichetta Amores - sta provando a diffondere la cultura del mezcal con un interessante «educational drinking tour».

Perché il mezcal è lontano e oscuro e il primo passo per apprezzarlo è capirlo. Prima di tutto, occorre distinguerlo dalla tequila. Anzi dal tequila. Che utilizza solo agave weberiana azul e una lavorazione semi-industriale, e grazie a questa sua «facilità» ha conquistato l'America. Al contrario, il mezcal è distillato da 22 tipi di agave diverse in soli 9 Stati messicani (Oaxaca, Guerrero, Durango, Tamaulipas, Guanjuato, Zacatecas, San Luis Potosì, Michoacan e Puebla). E soprattutto è prodotto artigianalmente dai maestri mescaleros esattamente come ai tempi di Cortez (la prima distilleria è del 1595). Il che ne fa il più antico e autentico distillato di agave messicano, nonché uno spirito mutevole e impossibile da standardizzare.

Il suo nome deriva dai termini metl (agave) e ixcalli (cotto) in lingua Nahuatl. E il nome illustra bene come nasce. Le agavi - coltivate o selvatiche - impiegano dai 5 ai 30 anni per giungere a maturazione sessuale. Quando accade, vengono tagliati il germoglio (quiote) e le foglie e si tiene il cuore, la piña. Queste vengono cotte a legna in buche sotto terra, coperte da pietre di fiume e foglie, per 5 giorni, il che giustifica le note affumicate. Le piñas vengono poi macinate mosse da muli e la poltiglia di agave e succo viene lasciata a fermentare naturalmente fino a 30 giorni. Passati i quali si distilla due volte in alambicchi di rame. La tecnologia non esiste e i mescaleros capiscono la gradazione dal numero di bolle che si generano versando il distillato in gusci di cocco.

Basterebbe questo per capire come il mezcal sia totalmente fuori tempo. È uno spirito che sa di passato e popolo, rude e imperscrutabile. Eppure funziona, incuriosisce. Certo, in Messico il 90% viene consumato liscio e il 10% in miscelazione, in Europa è il contrario. Ma è comunque in crescita, come testimonia l'acquisto di Del Maguey da parte del colosso Pernod e come dimostrano le decine di etichette arrivate sul mercato italiano: Yuu Baal, Ilegal, Meteoro, El Jolgorio, e come detto Amores, che dal 2010 reinveste nelle comunità dei mescaleros e nell'ambiente per sviluppare il territorio.

Perché la chiave del nuovo successo del mezcal sta nell'aver buttato il verme con l'acqua sporca. Fuor di metafora, dagli anni '40 in ogni bottiglia cominciò a comparire il gusano, una grossa larva parassitaria dell'agave. Tutto deriva ancora dal mito di Mayahuel, la dea azteca che un giorno, in preda alla passione, sedusse l'eroe Chag. Costui, dopo aver mangiato il bruco nato dal grembo della dea, diventò un dio, la amò per sette giorni e generò 400 conigli, ovvero i 400 modi in cui ci si può ubriacare col mezcal. Il successo della storiella presso i turisti americani - unito al fatto che il gusano sviluppa il feromone afrodisiaco «Cis-3-Hexen-1-ol» - spinse qualche genio del marketing ad infilare i vermi nelle bottiglie. Mossa folkloristica ma poco tradizionale, tant'è che presto perse effetto, lasciando il mezcal preda di pregiudizi e perplessità.

Recentemente invece i produttori sono riusciti a fare cartello e a capire che la chiave per non passare da «fratelli sgraziati» del tequila è la bio-diversità. Ogni specie di agave è un mondo a parte, anche perché i terroirs vanno dal deserto alla montagna, dalle zone tropicali agli altipiani. La più diffusa è l'agave Espadin, ma si possono trovare la Cupreata, la Tepeztate, la Madrecuixe, ecc. Tutte con tempi di maturazione, rendite e livelli zuccherini diversi, il che darà mezcal vegetali, fruttati, minerali o perfino carnosi. Senza contare che il tipo di legna usata nella cottura, così come la durata delle fasi di lavorazione, influisce sulla pesantezza dell'affumicatura. Se le note sono sette ma la musica è infinita, stessa cosa succede per il mezcal.

Che - anche se il meglio lo dà in versione bianca («joven») in drink estivi - può anche essere bevuto liscio, magari con cioccolato fondente e formaggio e fichi. E può pure essere invecchiato. I messicani vedono la pratica con sospetto, perché la maturazione per loro avviene nell'agave stessa. La Tepeztate, ad esempio, viene colta quando ha 30 anni: come un whisky di lusso! Ma dato che il mercato chiede spiriti «colorati», ecco che da poco si produce anche mezcal «reposado» e «anejo», da meditazione.

Perché non c'è niente da fare, il misticismo torna sempre.

E c'è un proverbio che spiega questo spirito meglio di ogni tour: «El mezcal no te emborracha, te pone mágico».

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