Economia

Verso la ripresa: il ruolo delle banche

Imprese e famiglie accusano gli istituti di credito. Che rispondono: stiamo attenti alla qualità. Le parti si sono confrontate lo scorso 21 maggio a Rimini, nel convegno organizzato da BancaFinanza e Morningstar

Verso la ripresa:  
il ruolo delle banche

«Verso la ripresa, il ruolo delle banche». Questo è stato il tema del convegno organizzato lo scorso 21 maggio da BancaFinanza e da Morningstar al Palacongressi di Rimini all’interno dell’It Forum 2009 (investment & trading), la Fiera del trading e del risparmio. Numerosi erano i relatori perché l’argomento affrontato è di grande attualità in questo momento di crisi: diventa,infatti, sempre più strategico il ruolo delle banche nel rilancio dell’economia reale, e nella prospettiva di una ripresa che si spera vicina. Le banche e la finanza sono la benzina nel motore dell’economia, e se la benzina manca o scarseggia, le aziende e le famiglie non possono andare lontane. confronto All’It Forum di Rimini, banchieri, associazioni imprenditoriali e consumatori hanno discusso su come il credito è intervenuto a supportare aziende e famiglie e sull’evoluzione del rapporto banche-mercato. Partendo proprio da queste premesse, il dibattito è stato animato. Anche perché erano presenti, fianco a fianco, manager di banca e rappresentanti di associazioni di categorie produttive e dei consumatori. Non ostili certamente fra loro, ma con particolari e specifici interessi da motivare e difendere. Ma prima di entrare nel vivo della discussione, è stata utile l’analisi sul mercato internazionale tracciata da Salvatore Capasso, professore associato di Economia all’università di Napoli. Il quale è partito da due domande: come è potuto accadere questo tsunami che ha messo il mondo in ginocchio? E quali lezioni bisogna trarre da questa crisi? Vediamo.

RADICI E LEZIONI DELLA CRISI Secondo il docente, le radici dello scossone finanziario ed economico stanno in quei prodotti complessi che neanche chi li ha emessi sapeva quali conseguenze avrebbero causato, nella scarsa trasparenza nell’emissione e nella struttura dei titoli “incriminati”, nell’eccessiva cartolarizzazione e nell’inadeguato controllo sui soggetti finanziari protagonisti dello sconquasso». Se queste sono state le cause, quali sono stati, invece, gli effetti? Capasso li ha elencati, partendo da quello principale: la riduzione del credito. «Le banche», ha spiegato, «hanno iniziato a non prestarsi più i soldi fra loro e, disponendo di meno liquidità, sono diventati minori gli impieghi alle imprese». Le aziende, a loro volta, quando la crisi finanziaria ha investito l’economia reale, hanno avuto un tracollo degli ordini. «Da qui è, poi, nato l’incremento delle insolvenze. Il sistema, quindi, sta davvero rischiando grosso». Ed è su questo fronte, ha aggiunto Capasso, che si sta giocando la vera partita. Anche perché gli istituti di credito, almeno alcuni, non sono usciti indenni dal terremoto iniziato dai subprime americani. Hanno cominciato ad accumulare perdite più o meno ingenti. «E le perdite hanno reso necessaria la ricapitalizzazione degli istituti stessi». È il gatto che si morde la coda, insomma. Riassumendo: la crisi finanziaria è stata devastante, ha eroso bilanci e patrimoni degli istituti di credito i quali, scossi dal panico, non si sono più prestati denaro fra loro e non l’hanno prestato neppure alle aziende che, a loro volta, hanno visto precipitare le commesse, sono andate in sofferenza e, bisognose di liquidità, se la vedono offrire solo con il contagocce dalle banche. Com’era, infatti, la situazione a fine maggio, al momento del convegno? I segnali descritti da Capasso non potevano non dirsi preoccupanti: «Si è ridotto il flusso del commercio internazionale, si è ridotto quello finanziario verso i Paesi emergenti, il sistema ha avuto una percezione altissima del grado di rischio del mondo bancario. Cioè sono stati in moltia credere che gli istituti di credito fossero sotto il rischio di default». La congiuntura resta nebulosa. Opacità è la parola utilizzata dal docente universitario per descrivere la situazione. E in futuro? «A breve i mercati finanziari si stabilizzeranno, ma l’economia reale continuerà a mantenersi sotto shock». Perché, purtroppo, «i fattori negativi che hanno causato la recessione sono capitati tutti nello stesso momento». E questi l’hanno resa più cruenta. Quali lezioni trarre? Capasso ne ha elencate cinque: vanno regolamentati «i nuovi prodotti che possono essere rischiosi per la stabilità dei mercati finanziari»; totale deve essere la trasparenza degli strumenti finanziari: «Il mercato deve sapere che cosa c’è dentro il titolo e chi ci sta dietro»; vanno riviste leregole contabili, perché se gli asset fossero valutati «ai prezzi di mercato, le perdite sarebbero enormi» e, «quindi, per ora, serve la flessibilità» nella loro classificazione; è necessaria una migliore valutazione del rischio («Il problema non è il credito rischioso, ma quando il rischio non è ben visibile») e, infine «non ci deve essere collusione fra chi deve controllare e chi è controllato».

PRODOTTI COMPLESSI Proprio dagli strumenti derivati è partita la catena degli eventi negativi che ha travolto finanza ed economia. Sono, per questo, da mettere al bando? Il professor Francesco Saita, direttore del Dipartimento finanza della Bocconi di Milano, non è d’accordo. Due sono state le sue considerazioni. «È un mercato che avrà certo una crescita meno prorompente», ma non si fermerà. Con i derivati bisognerà sempre fare i conti. Quindi, se «l’auspicio è che questi mercati diventino sempre più responsabili e trasparenti»,e se è positivo il fatto che la Consob chieda di «specificare meglio quali sono quelli adatti alla clientela», è anche vero che «bisogna elevare il livello di competenza degli investitori». Anche se, purtroppo, ha avvertito Saita, «manca ancora lo sforzo a capire di più». D’accordo. Ma, a parte i prodotti complessi come i derivati, si sta parlando molto, in questi tempi, di banche di prossimità: cioè di istituti che sono vicini alle famiglie e alle imprese dei territori nei quali hanno robuste le loro radici. Sono, poi, le banche che, anche in questo momento di crisi, hanno siglato buoni bilanci e trimestrali.

MENO FIDUCIA Eppure, in generale, qual è il grado di fiducia delle famiglie nei confronti del mondo del credito? L’intervento di Fabio Picciolini, segretario nazionale di Adiconsum, è stato un atto d’accusa verso il settore bancario. Il grado di fiducia delle famiglie, ha avvertito, è crollato a picco. «A cominciare dai crack finanziari degli ultimi tempi ai recenti default di Lehman e dei prodotti islandesi». Non solo, infatti, le banche hanno venduto prodotti che, poi, si sono rivelati cattivi investimenti per i budget degli italiani, ma «le famiglie non hanno visto le banche partecipare attivamente a risolvere i loro problemi». Picciolini ha ricordato, a questo proposito, il problema mutui. Negli anni 2002-2003, altissima («il 70%-75% addirittura», ha rimarcato) era stata la preferenza dei correntisti accordata ai tassi variabili che in seguito li ha, invece, sfavoriti. «Piuttosto che venire incontro alle famiglie in difficoltà, il sistema bancario ha fatto muro, cavillando per un anno sulle virgole e, intanto, i clienti erano ormai entrati in forte affanno». Se, insomma, «gli italiani si aspettavano che le banche li aiutassero in questi momenti di difficoltà», l’aiuto non c’è stato. Meglio hanno fatto le assicurazioni. «L’80% delle compagnie ha saputo, per esempio, dare una risposta positiva ai risparmiatori ai quali avevano venduto le Lehman». Ma non è stato il solo affondo di Picciolini. Ne ha prodotto diversi altri. «I Patti Chiari non sono stati sufficienti» a creare un rapporto difiducia fra banche e clienti. «C’è, inoltre, un forte restringimento nell’erogazione del credito. Soprattutto al sud dove la gente non ce la fa più a pagare le rate del mutuo. Ma anche il sistema confidi, che garantisce per le imprese, è in forte apprensione». Un j’accuse in piena regola. Infine, ha concluso Picciolini, ai risparmiatori se è derivato un vantaggio da questa crisi è che oggi i cittadini «sono diventati più attenti. E si fanno sentire». Premendo sul sistema bancario finché, come sul caso Lehman, «molti istituti hanno risarcito i danni provocati». Accuse che non potevano passare sotto silenzio. E, infatti, immediata è stata la reazione di Rodolfo Ortolani, direttore generale di Unicredit Banca. Il quale ha voluto iniziare da una premessa da lui considerata fondamentale: «La fiducia si costruisce con la buona comunicazione», ha sottolineato. Che, a suo dire, non c’è stata. E qui sta la «irresponsabilità dei mezzi di comunicazione». Ed è a questo punto che Ortolani ha svelato un retroscena avvenuto nei momenti più terribili della crisi finanziaria che aveva investito anche l’Italia. «Il Paese aveva solo una settimana per evitare il disastro finanziario. Draghi, Berlusconi e Tremonti si riunirono e misero in moto un’azione forte. Puntando sul sistema bancario, il quale con le sue gambe ha supportato la crisi. Questa è la verità. Questo è comunicare le situazioni reali». Si è capito subito che Ortolani voleva mettere molti puntini sulle «i». E, infatti, anche il suo è stato un discorso forte. «Deve essere ben chiaro che le banche non sono tutte uguali. Ci sono stati istituti di credito che hanno venduto titoli per ridurre la loro esposizione trasferendo le passività in capo ai risparmiatori. Questo si chiama truffa.Altri, invece, si sono comportati diversamente». L’affare Lehman,per esempio. Ortolani si è tolto non uno, ma tanti sassolini. «Capitalia», ha spiegato, aveva venduto strumenti derivati. Anche le Lehman. Unicredit se le è trovate in pancia con la fusione. Ma ha rimborsato il 100% a chi aveva subito delle perdite». I mutui. «Il 75% delle famiglie aveva preferito il tasso variabile perché era conveniente, in quanto le rate erano meno pesanti rispettoal fisso. Sarebbe stato un patrimonio da tenere lì a disposizione,uno zainetto sul quale contare nel caso in cui il tasso variabile fosse aumentato per qualche mese. L’avevamo detto ai clienti. Non c’è stato niente da fare. Chi è passato dal variabile al fisso, ora piange». Istituti sordi alle esigenze delle famiglie? Ortolani sorride: «E allora come si spiega che Unicredit abbia bloccato il pagamento delle rate del mutuo per un anno, caricando i versamenti più avanti nel tempo, per le famiglie che non riescono a pagare la rata a causa di eventi particolari come la perdita del posto di lavoro, la cassa integrazione, la separazione o il divorzio, il decesso di uno degli intestatari del mutuostesso?».

IL RAPPORTO CON IL TERRITORIO Infine, la risposta di Ortolani all’accusa rivolta ai grandi gruppi di non essere radicati sul territorio e di creare, anzi, ulteriori difficoltà agli imprenditori che non hanno più un vero referente a cui rivolgersi, uno che conosca bene la storia della loro azienda, perché manager e funzionari cambiano in continuazione. Una risposta secca: «Siamo sì un grande gruppo, ma Unicredit è formato da banche radicate sul territorio. È nel nostro Dna essere banca locale, concentrati su famiglie e piccole e medie imprese. Così come abbiamo rapporti molto stretti con i Confidi e le associazioni di categoria. Ma la voglio dire tutta: un funzionario non viene spostato dalla zona a cui è stato assegnato prima di quattro o cinque anni: e poi ci dite che gli imprenditori non hanno un referente?». A gettare un po’ di acqua sul fuoco è stato Fabio Fulvio, direttore dell’area marketing e credito di Confcommercio. Non fa certo da pompiere questo manager, ma è voluto partire da una realtà innegabile: «Non si può dire che le imprese del terziario e dei servizi vadano a gonfie vele. Se, però, i ricavi sono minori del 2008, l’occupazione in questi settori è rimasta invariata». Il motivo? Semplice: «Stiamo parlando di piccole realtà», ha sottolineato Fulvio, «che hanno, a volte, quattro dipendenti al massimo. Prima di licenziare, l’imprenditore ci pensa dieci volte. Se, infatti, dovesse mandarne via due, perderebbe il 50% della sua forza lavoro. E, prima di trovarne altri che sappiano sostituirli degnamente, gli costerebbe molto in formazione». Se questa è la situazione, e in questo momento di crisi, non è giusto incolpare le banche di avere chiuso i cordoni della borsa. «Nel primo trimestre di quest’anno solo un quarto delle aziende associate ha chiesto un fido. La ragione poggia sul fatto che i fatturati sono scesi e che gli imprenditori si erano convinti che, comunque, non l’avrebbero ottenuto». Chi, invece, lo ha domandato alla banca, ha sostenuto Fulvio, nel 60% dei casi l’ha avuto e solo il 20%-22% delle richieste è stato bocciato. «È vero, le banche sono diventate più selettive,e più l’azienda è a rischio, più l’istituto di credito è attento a concedere un affidamento. Ma a quasi tutti viene data almeno una parte del fido richiesto per non scontentare i clienti». Basilea 2: da una parte, le norme introdotte sono «positive perché è stata inserita una correlazione fra il rischio e il costo del denaro. Dall’altra parte, però, si è spersonalizzato, purtroppo, il rapporto fra banca e azienda. Che è doveroso recuperare. E in questo caso giocano un ruolo importante i confidi che conoscono bene gli imprenditori, la loro storia e il loro business».

L’ACCESSO AL CREDITO Frasi, concetti, affermazioni che sono state bene accolte da Franco Baronio, amministratore delegato della Popolare di Verona, San Geminiano e San Prospero del gruppo Banco Popolare. «Quando ci sono le crisi, c’è sempre un crollo della domanda di credito», ha detto. «Ma il credito, oggi, è più puntato sulle ristrutturazioni. Passiamo, infatti, la maggior parte del nostro tempo sulle situazioni aziendali critiche per trovare, insieme agli imprenditori,una via d’uscita». C’è da esserne soddisfatti? Baronio si è posto questa domanda e ha trovato due risposte. Che poggiano sulle debolezze delle banche e delle imprese. Alle prime servono, attraverso una maggiore formazione, più competenze tecniche per capire le aziende. Ma anche «più voglia di alzarsi dalle sedie e andare a studiare sul campo le varie situazioni». Gli imprenditori, a loro volta, devono fornire «business plan seri e informazioni vere»; in caso contrario, «i nervi» dei responsabili di banca «diventano scoperti quando, nel visionare le pratiche, trovano strada facendo problemi non detti e comunicazioni mai svelate». Anche sui confidi, Baronio ha qualcosa da ridire: «Non possono essere solo una centrale d’acquisto, ma veri partner degli istituti di credito». Insomma, se è giusto che le banche facciano la loro parte, è opportuno «che anche imprenditori e confidi facciano la loro. Uscire dalla crisi si può se lavoriamo tutti insieme». L’amministratore delegato di Popolare di Verona, San Geminiano e San Prospero, come in precedenza Ortolani, ha voluto anche rispondere alle osservazioni avanzate da Picciolini. In breve. Patti Chiari: forse, qualcosa non ha funzionato, ma «si è pronti a ripartire». Titoli Lehman: erano stati percepiti come un prodotto sicuro; così, poi, non è stato, «ma abbiamo pagato di tasca nostra le perdite dei sottoscrittori, anche per non mettere in difficoltà i colleghi che, nei vari territori, sono il tramite fra la banca e i clienti». Infine, servono «una nuova regolamentazione nel definire i parametri di base per la compilazione dei bilanci e degli utili» e risposte chiare e certe, che ancora non ci sono, sulle società di rating per eliminare qualsiasi conflitto di interessi: «Il linguaggio dellafinanza si regge sul rating e non sull’inglese», ha commentato Baronio.

ASSOCIAZIONI E CONFIDI Se banchieri, docenti universitari e rappresentanti dei consumatori hanno detto la loro, che cosa ne pensano le associazioni di categoria, quelle che conoscono bene le imprese e i confidi che garantiscono per le aziende nei confronti delle banche? Anche da loro è arrivata una disanima puntuale. Mario Bettini è presidente lombardo di Casartigiani, un’organizzazione che in questa regione ha una particolare rilevanza. È andato subito al sodo: «L’impresa è solo la vittima di una situazione finanziaria della quale non ha né colpa né pena. Eppure gli istituti hanno ristretto gli affidamenti e i tempi di erogazione sono diventati più lunghi. Certo, ci sono banche e banche. Non voglio fare l’elenco dei buoni e dei cattivi. Ma, in generale, il mondo del credito non ha un’attenzione particolare verso l’artigianato che, a parole, tutti dicono sia la spina dorsale dell’economia nazionale». Infatti, l’indagine di Unioncamere Lombardia è sulla stessa lunghezza d’onda espressa da Bettini: il 48% delle imprese giudica meno favorevole le condizioni di accesso al credito rispetto a un anno fa. «Un dato macroscopico. Ed è ancora più importante questa percentuale se si pensa che il settore dell’artigianato ha come canale privilegiato, se non unico, quello bancario». È un vero e proprio grido d’allarme. Già lanciato anche dal presidente nazionale di Casartigiani, Giacomo Basso: «Bisogna necessariamente partire da un dato di fatto univocamente riconosciuto e confermato ufficialmente anche dalla denuncia della Bce: il sistema creditizio italiano sta, ormai, attuando, in termini assoluti, una drastica riduzione della erogazione del credito, nei confronti delle imprese artigiane e delle microimprese, spingendole verso la condanna definitiva». Nel dettaglio, le cose che non vanno le ha elencate proprio Bettini: «Ci sono molti modi per mettere in difficoltà le aziende artigiane da parte delle banche: non concedere fidi anche di piccola entità, ridurre i finanziamenti già garantiti, sottoporre gli affidamenti a continue tensioni e revisioni, esercitare forti pressioni per i rientri sui fidi, aumentare il costo del denaro non legato al tasso di interesse ma allo spread, dilatare i tempi dell’istruttoria, rispondere in pericoloso ritardo, chiedere garanzie impossibili». La situazione, infatti, è diventata drammatica anche se la «Regione Lombardia e le Camere di commercio hanno dato soldi veri alle aziende». Il problema è che gli artigiani si trovano nel mezzo di una situazione paradossale, ha spiegato Bettini: «Da una parte devono pagare subito i loro fornitori, dall’altra vengono pagati in ritardo dai clienti e dalla pubblica amministrazione, e dall’altra ancora il sistema del credito gli ha chiuso le porte in faccia». Gli artigiani, in questo momento, hanno quindi bisogno soprattutto diliquidità. Oltre che di finanziamenti. Perché, ha osservato il presidente lombardo di Casartigiani, si sta correndo un grave rischio: «Che le aziende, quando ci sarà la ripresa, sitrovino con dipendenti scarsamente formati e macchinari obsoleti. Il disastro sarebbe dietro l’angolo». Gli esperti dicono che oggi lo scoglio più duro per gli impieghi sono le sofferenze. È vero? «In parte», risponde Bettini: «Sappiamo che le banche sono alle prese con un fardello di crediti difficili i quali, a loro volta, sono il riflesso delle difficoltà in cui versano imprese e famiglie. Le magagne, insomma, vengono dai prestiti. Ma c’è da sottolineare che le sofferenze dovute agli artigiani sono davvero marginali, lo 0,6%. Grazie anche e soprattutto ai confidi. Gli istituti di credito lo sanno bene e possono dormire sonni tranquilli». Sulla stessa lunghezza d’onda è Lino Pompili, vicepresidente nazionale di Cna. Il quale ha invitato gli istituti di credito a fidarsi delle associazioni di categoria e dei confidi. Che oggi sanno fare anche consulenza finanziaria, sanno redigere un business plan, stanno organizzando le reti di imprese, conoscono gli imprenditori e la loro storia. «Queste associazioni possono diventare un tesoro che le banche devono sapere sfruttare. Senza avere la minima paura perché l’artigiano paga sempre. E noi sappiamo chi, dei nostri associati, è corretto e leale, ha voglia di lavorare e desidera concretizzare un progetto aziendale serio. A questi diciamo di fare credito».

IL RUOLO DELLE RAPPRESENTANZE Pompili è anche presidente di Artigiancassa. Che, partecipata al 73,8% da Bnl e al 26,2% (tramite Agart Spa) da Confartigianato, Cna, Casartigiani e Fedart Fidi, dal 1° gennaio ha dato le gambe e il cuore a un progetto innovativo. Quale? È presto detto: Artigiancassa, con il proprio marchio, sta supportando la distribuzione di prodotti creditizi e finanziari del gruppo Bnp Paribas tarati sulle esigenze delle imprese artigiane per accompagnarne lo sviluppo e la crescita. Lo sta attuando grazie a una piattaforma informatica innovativa a livello tecnologico che non ha, forse, né precedenti né uguali in Italia. Infatti, nelle sedi delle associazioni artigiane di categoria e dei loro confidi, sono stati situati gli Artigiancassa point, muniti di terminali che hanno il compito di interfacciare la fabbrica prodott con il canale distributivo. Un esempio su tutti: «Se un artigiano ha bisogno di un finanziamento a medio-lungo termine per acquistare un tornio, non va più in banca, ma si reca nella sede della sua associazione di categoria dove un addetto, che ha seguito uno specifico corso di formazione, lo supporta nelle operazioni al computer», ha detto Pompili. «Per avviare la fase d’acquisto bastano poche operazioni. Così come è veloce la risposta: servono solo quattro o cinque giorni per sapere se il finanziamento è accettato o respinto. Ma c’è un altro valore aggiunto: l’artigiano non è più costretto, andando in banca, a spiegare le sue necessità a funzionari che usano termini spesso incomprensibili a chi è abituato più a produrre che a parlare di finanza». Recandosi, invece, nella sua associazione o nel suo confidi, l’artigiano e l’addettoall’Artigiancassa point parlano lo stesso linguaggio. «Ho studiato questo modello», racconta Pompili, «quando ero ancora consigliere di Artigiancassa. L’ho spiegato a tutto il management, ma ho faticato a far capire il progetto. Poi Jean-Laurent Bonnafé, che era l’allora amministratore delegato della banca, ha creato un gruppo di studio per verificare la bontà o meno dell’iniziativa. È bastato questo per chiudere in 14 mesi la vecchia Artigiancassa e aprire quella nuova».

Quali lezioni si possono trarre da questo modello? «Tre: le banche devono osare di più, avere più clienti per diminuire i costi, ed essere più veloci nell’erogare il credito».

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