Controstorie

Viaggio a Gori la città di Stalin dove la nostalgia non tramonta

Il museo dedicato al dittatore sovietico non è cambiato dopo la caduta del Muro. Il «piccolo padre dei popoli» è ancora venerato E di gulag e stermini non vi sono tracce

da Gori (Georgia)

Per costruire un museo il buon gusto non serve, però aiuta. Ma a Gori, in Georgia, non sembrano averne troppo. Non tanto in senso estetico, quanto storico: di amor di verità. A un paio di ore d'auto dalla capitale Tbilisi, Gori è famosa soltanto per aver dato i natali, nel 1879, a Iosif Vissarionovic Dugavili, più noto come Josif Stalin, l'uomo d'acciaio. Al «piccolo padre dei popoli» è dedicato il museo statale J. Stalin, sei grandi sale rimaste pervicacemente ancorate all'epoca sovietica. «L'ultima sistemazione complessiva risale al 1969, da allora ci sono state solo piccole aggiunte: fotografie e qualche altro oggetto» racconta la giovane guida, Nadia, che lavora al museo da sei anni. «Però l'aspetto non è cambiato sostanzialmente», spiega. Ma passi per l'aspetto esteriore un po' antiquato, che ai musei polverosi siamo abituati anche in Italia, a non essere cambiata è la narrazione del percorso di vita del dittatore sovietico. Qui non si accenna ai milioni di morti nei Gulag in Siberia, così come non si accenna alle deportazioni di massa delle minoranze etniche o alla carestia in Ucraina. Paradossalmente un turista a digiuno di storia che visitasse questa costruzione dal profilo neoclassico ne uscirebbe con l'idea di aver conosciuto un personaggio storico dai grossi baffi con l'abitudine di fumare il sigaro, venerato dalle masse e incensato da pittori e scultori, che deve aver avuto una gioventù alquanto avventurosa e una vita adulta costellata di successi, tra cui il più eclatante: aver sconfitto il nazismo nella grande guerra patriottica. Insomma, un eroe senza se e senza ma.

Visitare il museo Stalin allora è come fare un salto nel tempo. L'ingresso costa 15 lari, poco più di cinque euro, ma è gratis per i combattenti della Seconda guerra mondiale e per i rifugiati delle zone separatiste della Georgia. Le impiegate che ti accolgono conservano lo stesso grigiume burocratico d'epoca sovietica; un poliziotto con tanto di pistola seduto su una sedia vigilia annoiato che tutto proceda senza intoppi, mentre al guardaroba rivestito di massiccio legno del Caucaso l'addetta sonnecchia per mancanza di clienti. Non che i turisti manchino, anzi sono in crescita costante, ma la stanza non ispira. Così come non ispirano le bottiglie di Superavi, il potente vino rosso georgiano amato dal caro leader in vendita nel negozio di souvenir assieme a spille, tazze con la falce e martello e altre riproduzioni di «baffone». Tutto splendidamente inattuale come sembra essere inattuale questo museo agiografico che si compone di tre elementi: un palazzo neanche troppo imponente che si ispira a un vago stile neoclassico italiano; l'isba dove vide la luce e il vagone blindato da trecento tonnellate con cui Stalin che aveva paura di volare si spostava all'interno dell'Unione Sovietica e venne usato anche per andare alle conferenze di Teheran, Yalta e Postdam. L'isba è una modesta costruzione di legno e mattoni che faceva parte di un denso quartiere di casette simili, tirate giù quando si è pensato di costruire il museo. Oggi è protetta da una teca di vetro conservata sotto una specie di tempio finto greco costruito già nel 1937 per volere, così si dice, di Berjia, capo della polizia segreta dell'Urss e anche lui georgiano. Uno più realista del re.

«Stalin spiega la guida che fa la sua presentazione a macchinetta come nella migliore tradizione sovietica non approvava il culto della personalità. Nella sua idea questo edificio doveva ospitare un museo della rivoluzione socialista. Finì per diventare un museo personale solo alla sua morte per volere del popolo». Dice proprio così: «del popolo», e chissà se ci crede davvero. Scucirle un'opinione personale non è semplice, il ruolo impone neutralità. Così non racconta che una buona metà dei georgiani considera Stalin un tiranno e un despota, mentre un'altra metà lo reputa «ben più di una persona, assai oltre l'umano, giusto un gradino sotto Dio». L'idea che va per la maggiore è che sia stato un onesto figlio della terra georgiana che si è fatto strada. Che a ben vedere suona un po' come la versione caucasica del «quando c'era lui i treni arrivano in orario». Chi non lo ama fa finta che fosse georgiano per un incidente e comunque solo in gioventù, quando da ex seminarista si trasformò in rivoluzionario marxista come raccontano con dovizia di fotografie, ritratti e documenti le prime due sale. Per il resto della sua vita, specie quando impartiva ordini per sterminare migliaia di persone, era russo, anzi sovietico. I giovani georgiani ogni volta che glielo si nomina dicono (in inglese) «quel fottuto Stalin» e aspettano fiduciosi che la biologia faccia il suo corso: i nostalgici sono quasi tutti anziani.

Sono gli stessi anziani, un tempo giovani, che per una strana forma di patriottismo negli anni hanno lottato per difendere i simboli staliniani di Gori. Sulla piazza principale, davanti alle finestre del municipio, per decenni troneggiava una statua di Stalin. In bronzo, alta sei metri, non era particolarmente imponente, ma aveva un grosso piedistallo di granito. Dalla destalinizzazione degli anni Cinquanta sarebbe dovuta essere l'unica statua «ufficiale» di Stalin in tutta l'Unione Sovietica, anche se nei giardini delle scuole o nei cortili delle sedi di partito più periferiche le statue di Stalin non mancavano. Era stata collocata nel centro della sua città natale nel 1951, poco prima della sua morte. Nel 1956 Cruschev la voleva abbattere, ma tutta la città scese in piazza per protestare. Nel 1988, quando al potere c'era Gorbacev, ci riprovarono. Anche allora la gente di Gori si radunò al grido di «Stalin non si tocca» e la statua rimase dov'era. Alla fine venne rimossa nel 2010, di notte e senza preavviso. Con un accordo a suo modo salomonico sarebbe dovuta finire nel giardino del museo in qualità di reperto storico, ma non ve n'è traccia. Anzi, nel 2013 il Comune ha votato il ripristino del monumento, per ora rimasto sulla carta. Come è rimasto sulla carta il progetto di riallestire il museo aggiornando e attualizzando il racconto. «Saakashvili aveva quasi completato il progetto per trasformarlo in un museo della Georgia sotto l'Unione Sovietica, simile al museo dell'occupazione di Tbilisi, ma il suo governo non è durato abbastanza e da allora non se ne parla più» spiega la guida. E il materiale non mancherebbe: al ministero dell'Interno conservano ancora le 3.600 condanne a morte di georgiani che Stalin firmò personalmente.

Così in oltre 60 anni l'unico cambiamento di rilievo è stato quello del 2010, quando è stata creata un'ala separata dedicata al periodo delle repressioni staliniane. Anche se definirla un'ala è eccessivo: più che altro si tratta di un modesto sottoscala grigio e scuro, dove sono raccolte le fotocopie di alcuni documenti del Kgb, la riproduzione di una cella e qualche fotografia di internati nei gulag. È l'unico riferimento concreto ai milioni di morti, deportati e perseguitati del periodo staliniano. Nello stesso anno è stata esposta una copia del testamento di Lenin in cui definisce il compagno Stalin «capriccioso, brutale e grossolano», ma è solo una piccola teca che si rischia di non vedere. Anche perché nella stanza successiva si trova la maschera mortuaria di Stalin: un calco del volto circondato da colonne di marmo trionfanti. Nell'ultima sono invece raccolti i regali che da tutto il mondo giunsero in occasione del suo 70esimo compleanno. Uno arriva dall'Italia: «Dalle donne italiane di Mantova a Giuseppe Stalin, campione della Pace».

All'epoca il buon gusto non mancava soltanto a Gori.

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