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La vita blindata dei nostri soldati in Afghanistan

Maniacali le misure di sicurezza dei nostri militari che devono guardarsi non solo dai terroristi, ma anche dai locali

Soldati italiani in Afghanistan (foto di Mauro Consilvio)
Soldati italiani in Afghanistan (foto di Mauro Consilvio)

Non solo mine lungo la strada o missili sulla base, anche le gambe accavallate mostrando la suola delle scarpe può costare la vita in Afghanistan. Non conoscere a fondo usi, costumi, codici di comportamento di questo Paese significa infatti esporsi a un rischio mortale. Perché l'afghano, popolo fiero e forse anche po' troppo permaloso, conosce una sola maniera di lavare un insulto: con il sangue. Il nostro Stato maggiore della difesa, dopo tanti anni di esperienza in teatri di guerra in terre islamiche, e purtroppo anche tanti morti, ha elaborato protocolli di sicurezza così stringenti da sembrare paranoici. Perché l'insidia spesso si nasconde nei particolari trascurati.
Camp Arena è il cuore dell'apparato militare nel nord ovest del Paese. Qui operano anche militari americani e spagnoli, sotto responsabilità del generale Maurizio Angelo Scardino, comandante della brigata bersaglieri Garibaldi, presente con il 1° reggimento, affiancato da carabinieri e altre unità delle forze armate. Circa 750 soldati protetti da un sistema difensivo impressionante: barriere di filo spinato, fossati anticarro, alte barriere di cemento, torrette e nidi di mitragliatrici. Altrettanto elevate le misure di sicurezza quando i militari devono lasciare il perimetro: si viaggia su mezzi blindati, indossando giubbotti antiproiettile, elmetti in kevlar e occhiali antischegge.

Maniacale poi l'attenzione ai rapporti con la popolazione locale. Se ogni forma d'assalto alla base e ai mezzi sembra essere stata prevista e neutralizzata, resta elevato il rischio di un'azione isolata. E non sempre il pericolo arriva da un terrorista. Frequenti infatti sono le occasioni di contatto con i locali, reclute da addestrare e lavoratori all'interno di Camp Arena, selezionati dopo rigorosi controlli. Ma c'è sempre l'imprevisto. Gli afghani hanno i loro codici di comportamento che possono essere infranti, spesso inconsapevolmente, da un occidentale. Accavallare le gambe mostrando la suola al proprio interlocutore rappresenta un'offesa mortale. Come rivolgere non solo la parola ma anche un semplice sguardo a una donna sola, peggio ancora se accompagnata dal marito o un parente. Poi ci sono i precetti religiosi. Una volta in una caserma scoppiò la rivolta di 600 reclute afghane perché un istruttore italiano aveva toccato un foglio di carta su cui erano scritte le preghiere. Rendendolo impuro. Gli istruttori si barricarono in un edificio e solo l'intervento di alti ufficiali afghani scongiurò lo scontro fisico. Qualche tempo fa invece durante una riunione, un ufficiale afghano uccise quattro pari grado americani per poi suicidarsi. Era sotto ricatto dei talebani che gli avevano rapito la famiglia.

Dunque l'agguato per motivi politici, religiosi o d'onore, può scattare anche dentro lo stesso Camp Arena e per questo ogni militare è obbligato a girare con la pistola alla cintura. Mentre alcuni obiettivi «sensibili» come lo stesso generale Scardino, addirittura protetti da soldati addestrati alla sicurezza alla persona. La scorta viene attività anche in caso di accesso alle caserme delle forze armate e di sicurezza locali, dove ogni occidentale, militare o civile, entra esclusivamente guardato a vista da un soldato armato e dopo che l'intera area è stata «bonificata». Nel corso di un addestramento al tiro, i locali maneggiano le armi da fuoco sotto il tiro dei fucili degli istruttori.
Sempre nel timore di un'azione isolata altrettanto sofisticati sono i protocolli per il recupero di unità rimaste isolate all'esterno, magari in pieno deserto. Lanciato l'allarme il comando accerta la loro identità attraverso codici e parole d'ordine concordate per evitare di incappare in un terrorista che ne abbia preso l'identità. Altrettanto macchinose le azioni di recupero: la persona da salvare deve farsi trovare in ginocchio, mani sopra la testa, schiena rivolta ai soccorsi.
Paura, paranoia, maniacale eccesso di cautela forse, ma l'attacco alla base di Nassiriya, 28 morti di cui 17 italiani, ha insegnato che appena viene abbassata la guardia è strage. E nessuno ai verti dello Stato maggiore vuole piangere altri caduti.

Meglio un giubbotto antiproiettile in più che un soldato in meno.

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