Cultura e Spettacoli

Wenders rispolvera cinque miti degli anni Ottanta

Il regista in «Chambre 666», girato nell’82, intervista Godard, Spielberg, Herzog, Antonioni e Fassbinder

Salvatore Trapani

da Cannes

I Festival del cinema sono catalogati per nazione, ma il cinema - per chi lo fa - proviene da un sentimento comune. Lo dimostra Chambre 666 di Wim Wenders fuori concorso, girato al Festival di Cannes del 1982 nella stanza 666 all’Hotel Martinez. Il film è stato presentato ieri dallo stesso Thierry Fremaux davanti a una sala traboccante di spettatori e a Wenders stesso, che guarda a questo piccolo gioiello di cinquanta minuti con grande nostalgia. Un documentario a interviste nel quale ha chiesto ai colleghi più famosi di allora di recarsi nel suo alloggio, per rispondere a un comune quesito: «Il cinema è un linguaggio sul punto di sparire o un’arte sul punto di morire?». Gli invitati Jean-Luc Godard, Steven Spielberg, Werner Herzog, Michelangelo Antonioni e Rainer Werner Fassbinder, alla sua ultima apparizione, che due mesi dopo morì d’infarto e di cui quest’anno si commemora il sessantennio dalla nascita.
Chi burbero, chi conciliante, chi strafottente, nessuno degli intervistati parlando del domani del cinema - ovvero il nostro presente - ha dato risposte allarmate. Jean-Luc Godard, senza guardare la camera e roteando un foglietto tra le mani, risponde per primo: «Io devo morire, perché sono fatto di carne, non le mie pellicole impregnate della mia arte». Modesto e grande Antonioni vede la crisi del cinema nell’incapacità dei registi di adeguarsi ai tempi e ai nuovi sistemi d’immagine. E cita le atmosfere impure di Deserto rosso (1964), che già si chiedeva quale fosse la via per un futuro migliore. Steven Spielberg parla da un punto di vista tutto americano. Infatti negli Stati Uniti - dove tv e grande schermo sono industrie forti e parallele - la crisi non è mai esistita e anzi si approfittava per esportare in un’Europa meno competitiva. Erano gli anni di E.T. - L’extraterrestre e Indiana Jones...
I colleghi tedeschi davanti alla camera di Wenders sono di poche parole. Werner Herzog distingue tra una tv, che chiama scatola-juke-box e il cinema: «La prima non ti incolla allo schermo, puoi anzi alzarti e distrarti; mentre il secondo può stancare ma ha un effetto puro».

Chiude veloce Fassbinder, nel vero senso della parola, perché con un cuscino copre l’obbiettivo, ma prima dice: «Il cinema non può morire, perché è l’occhio dei tempi e i registi sono la sua lente sulla vita».

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