C'è un «Leonardo» in Val Padana che batte il maestro per sensualità

orreggio ci porta in Paradiso. Non toscano, non veneto, non piemontese, Correggio è emiliano. Inizia guardando Mantegna, assistendo alle mirabile creazioni mantovane. Poi ha un'intuizione di quanto accade a Roma e che andrà a vedere, con i suoi occhi, il più giovane Parmigianino, mentre Correggio, per quanto si cerchino spazi nella sua biografia, a Roma non andò, perché Raffaello era dentro di lui, con una dolcezza altrettanto ideale e più estenuata che, per primo, incantò Anton Raphael Mengs.
Correggio dipinge le carni, e anche gli odori delle carni. E dipinge il cielo, in un vortice di nuvole di luce che apre la strada alla sensibilità barocca. Correggio è come la vita. A Parma poteva far tesoro anche delle opere della maturità, particolarmente felici, di Giovanni Battista Cima da Conegliano; non mancò di meditare sugli idilli di Giorgione e sulle prime opere di Lorenzo Lotto. Ma, di tutti, egli è il più lieve, il più incorporeo. Tanto più strano, perché Correggio è il pittore dei sensi, per eccellenza anti-metafisico. Ed è colto e sofisticatissimo, come dimostra subito nella prima grande impresa commissionata dalla badessa di San Paolo per una stanza, che Correggio immagina come un pergolato con aperture ovali dalle quali si affacciano putti giocosi e danzanti, sopra una teoria di monocromi con soggetti mitologici.
Correggio inizia e non sbaglia. Sembra sentirsi a suo agio nell'affrontare temi che hanno reminiscenze letterarie, e lo vediamo anche negli affreschi ritrovati nel refettorio di San Benedetto Po. Dei maestri sente soprattutto Leonardo, intellettuale e sensuale come lui, e ne impasta le forme nella nebbia padana.
Intorno al 1520, quando Gaudenzio è a Varallo per il suo capolavoro, Correggio entra nella prima maturità da cui esce il suo primo cielo: la cupola per la chiesa di San Giovanni Evangelista, la Visione di San Giovanni, con il Cristo dominante in un cielo d'oro, veramente metafisico. Il mirabile scorcio rappresenta un parallelo sia delle esperienze veneziane di Tiziano, a partire dall'Assunta, sia di quelle romane di Raffaello nelle Stanze vaticane. Negli anni successivi si applica alla seconda, vertiginosa, cupola, quella per la cattedrale di Parma, iniziata nel 1524. Illusionismo e moltiplicazione dello spazio ne fanno un vortice senza precedenti, in una composizione a spirale a partire dai pennacchi. La sua fantasia sfida ogni situazione, anticipando i tempi anche in sensualissime pale d'altare come la Madonna di San Girolamo, o l'Adorazione dei pastori, in cui Correggio per primo sperimenta l'ambientazione notturna.
Ma le opere sue più sublimi sono forse le tele di soggetto mitologico, con gli Amori di Giove che egli affronta con la stessa verità e lo stesso stato d'animo dei soggetti religiosi. Meditando soggetti che non hanno nessuna dimensione spirituale Correggio raggiunge quella armonia che Benedetto Croce riconosceva all'Ariosto, il quale, per singolare coincidenza, veniva compiendo edizione definitiva dell'Orlando furioso proprio negli anni in cui Correggio dipingeva gli Amori di Giove. E se in Giove e Io la sensualissima figura femminile, certamente ammirata da Rubens, raggiunge l'estasi nell'abbraccio con una nuvola che ha la densa consistenza della nebbia padana, in una morbidezza di forme che non ha l'eguale neppure nelle sempre carnali Veneri di Tiziano, nel Ratto di Ganimede Correggio raggiunge il sublime, con l'aquila che porta in alto il giovane dalle morbidissime forme, sospendendolo su un paesaggio di trasparenze colorate che neppure Leonardo avrebbe saputo concepire. A terra rimane il cane di Ganimede che inarca la schiena per seguire il padrone in uno struggimento che commuove, presupponendo nell'animale un'anima.


A queste finezze o nuances psicologiche nessun pittore era mai prima arrivato. Occorrerà aspettare Rubens e Watteau perché le intuizione compiute di Correggio diventino fonti insostituibili e testimonianza di una nuova sensibilità.

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