Sembrava fatta. Via il carcere per i giornalisti. Errore. Nell'attesa di una legge di cui si parla da anni e che non arriva mai, ecco spuntare una norma sulla diffamazione che bastona i cronisti e li punisce con pene stellari: 9 anni di carcere quando la vittima è un magistrato o un politico, sei anni se invece ad andarci di mezzo è un cittadino comune.
Pare impossibile, ma questo è lo stato dell'arte dopo l'improvvisa accelerazione di un disegno di legge approvato trionfalmente nei giorni scorsi dalla commissione Giustizia del Senato. Una protezione pensata su misura per gli amministratori locali, esposti a intimidazioni e minacce. Ma, come spesso succede nel cantiere del Parlamento, le nuove norme, ora all'esame dell'aula di Palazzo Madama, finirebbero col mettere il bavaglio alla stampa.
È uno dei paradossi della nostra legislazione, sempre più caotica e schizofrenica: da una parte si va avanti da anni, fra un convegno e l'altro, nell'annunciare norme meno restrittive per il quarto potere. E ad ogni arresto di professionisti della carta stampata, si alza puntuale il coro che ci ricorda l'arretratezza dell'Italia, stigmatizzata dall'Europa, perché spedisce ancora in cella chi dissente o critica. Dall'altra parte, ecco il disegno di legge, nuovo di zecca, che introduce, almeno sulla carta, pene severissime. E aggiunge carcere al carcere, come se anni e anni di disquisizioni e riflessioni fossero evaporati nel nulla.
Il Comitato esecutivo dell'Ordine dei giornalisti parla di «casta che si blinda» e aggiunge: «Si sbandiera come già realizzata (ma di fatto insabbiata) l'abolizione del carcere per la diffamazione a mezzo stampa, intanto con un blitz si inaspriscono le pene. E si determina una disparità di trattamento fra politici e magistrati - che vengono considerati cittadini di serie A - e tutti gli altri».
Parole che tornano nella nota firmata a quattro mani dal segretario e dal presidente della Fnsi, rispettivamente Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti: «È molto grave che il parlamento lavori ad inasprire le sanzioni, a carico dei giornalisti, mentre nessuna risposta è stata ancora data alla richiesta di cancellare il carcere per i giornalisti: arma impropria usata sempre più spesso contro i cronisti, costretti quotidianamente a fare i conti con le minacce della criminalità».
È il solito caos italiano che sulla giustizia dà il meglio di se. Con una mano si facilita il lavoro di cronisti e inviati, con l'altra li si confina in un girone infernale dove rischiano pene altissime. Esemplari. E sproporzionate. Sul confine sottile fra denigrazione e voce non allineata.
D'altra parte, da molto tempo tutti affermano di voler sfoltire le leggi ed ecco, d'incanto viene sagomato un nuovo articolo del codice penale, il 339 bis, per ingabbiare la stampa. «In realtà - si difende Doris Lo Moro, Pd, prima firmataria del provvedimento - la norma è nata per difendere gli amministratori pubblici da minacce e violenze».
Sarà, ma a Palazzo già battezzano il testo il Salva Casta e gli contrappongono, in un gioco di parole il Costa, da Enrico Costa (Ncd) avvocato e oggi ministro per gli Affari regionali, che elimina il carcere per chi scrive. Complicazioni e provvedimenti contraddittori. Un interminabile gioco dell'oca.
Cosi dalle parti del Pd, più di un deputato riconosce che in aula, al Senato, il testo dovrà essere modificato. E probabilmente spuntato. Chissà. E però il bavaglio, vai a sapere se per calcolo o per errore, è stato confezionato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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