«Ho il casco pieno d’acqua E sono solo nello spazio»

Luca Parmitano rievoca gli attimi più difficili della sua missione, il guasto alla tuta mentre era in «passeggiata»: «Non so se potrò fare il prossimo respiro»

Mentre faccio all'inverso il percorso verso l'airlock, la sensazione che l'acqua stia aumentando diventa una certezza: la sento coprire il tessuto spugnoso delle cuffie, e mi chiedo se perderò il contatto audio. L'acqua ricopre inoltre quasi del tutto la parte frontale del mio visore, al quale aderisce riducendomi la vista. Mi accorgo che per poter superare una delle antenne nel mio percorso dovrò riposizionare il mio corpo verticalmente, anche per permettere al mio cavo di sicurezza di riavvolgersi regolarmente.

E in quel momento, mentre mi posiziono a «testa in giù», due cose succedono contemporaneamente: il sole tramonta, e la mia capacità di vedere, già ridotta dall'acqua, svanisce del tutto rendendo inutilizzabili i miei occhi; e, molto peggio, l'acqua ricopre il mio naso – una sensazione davvero sgradevole, peggiorata dai miei sforzi, inutili, di spostare l'acqua dal mio volto scuotendo la testa. La parte superiore del casco è ormai piena di acqua, e non so neanche se la prossima volta che respirerò dalla bocca riuscirò a riempirmi i polmoni di aria e non di liquido. A complicare il tutto, mi rendo conto che non sono neanche in grado di capire in che direzione andare per rientrare all'airlock: riesco a vedere solo per poche decine di centimetri intorno a me, e non riesco a individuare neanche le maniglie che utilizziamo per muoverci intorno alla Iss.

Provo a contattare Chris e Shane: li ascolto mentre parlano fra loro, ma il volume è ormai bassissimo, li sento a malapena e loro non sentono me. Sono solo. Penso furiosamente a un piano d'azione. È fondamentale rientrare al più presto dentro: so che se resto dove sono, Chris verrà a prelevarmi, ma quanto tempo ho a disposizione? Impossibile determinarlo. Poi mi ricordo del cavo di sicurezza, la cui molla di riavvolgimento ha una forza di circa 3 libbre che mi «tira» verso sinistra. Non è molto, ma è l'idea migliore che ho al momento: seguire quel cavo fino all'airlock. Mi impongo di restare calmo e con pazienza, cercando le maniglie al tatto, inizio a spostarmi, cercando contemporaneamente di pensare a come eliminare l'acqua se dovesse giungere fino alla bocca. L'unica idea che mi viene in mente è di aprire la valvola di sicurezza vicino all'orecchio sinistro: creando una depressurizzazione controllata, dovrebbe riuscire a svuotare un po' dell'acqua, almeno finché questa, congelandosi istantaneamente per sublimazione, non dovesse bloccare il flusso. Ma creare un «buco» nella tuta spaziale è davvero l'ultima carta da giocarsi.

Mi sposto per quello che sembra un tempo lunghissimo (e che so essere pochi minuti). E finalmente, con grande sollievo, riesco a intravedere, oltre la cortina di acqua davanti ai miei occhi, la copertura termica dell'airlock: ancora poco e sarò al sicuro. (...) Cercando di muovermi il meno possibile, per evitare movimenti dell'acqua dentro il casco, continuo a dare informazioni sul mio stato di salute, ripetendo che sto bene e che la pressurizzazione può continuare. Adesso che stiamo ripressurizzando la cabina, so che nel caso l'acqua dovesse sopraffarmi potrei sempre aprire il casco: probabilmente perderei conoscenza, ma sarebbe comunque meglio che annegare dentro il casco. A un tratto Chris mi stringe il guanto con il suo, e gli faccio il segno universale di «ok» con il mio: l'ultima volta che mi ha sentito parlare è stato prima di entrare nell'Airlock! (...)

Lo spazio è una frontiera, dura e inospitale, in cui noi

siamo ancora degli esploratori e non dei coloni. La bravura dei nostri ingegneri, e la tecnologia che abbiamo a disposizione, fa sembrare semplici cose che non lo sono, e a volte forse lo dimentichiamo.

Meglio non dimenticare.

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