Grecia, così l'Italia ha salvato le banche francesi e tedesche

I nostri istituti avevano 10 miliardi di crediti con Atene, ma poi ne abbiamo dati 40 per tappare i buchi di chi aveva prestato con leggerezza. Così abbiamo salvato i soldi di Parigi e Berlino

Grecia, così l'Italia ha salvato le banche francesi e tedesche

Nel maggio 2010, il Fondo monetario internazionale fu teatro di una riunione burrascosa. Oltre 40 Paesi extra-europei salirono sulle barricate nel tentativo di opporsi al piano di salvataggio della Grecia, giudicato nient'altro che un escamotage per tirare fuori dai guai le banche del Vecchio continente. Le più esposte nei confronti di Atene erano quelle francesi (60 miliardi di euro) e tedesche (30 miliardi), mentre le italiane, per natura poco disposte a intossicare i bilanci con titoli ad alto rischio (a parte il caso Montepaschi), vantavano crediti per soli 10 miliardi di euro.

Le resistenze nei confronti del bailout da parte di una percentuale attorno al 40% dell'organismo che sarebbe poi andato a comporre la troika insieme con la Commissione Ue e la Bce e che avrebbe subito voluto procedere con un taglio del debito, trovano un fondamento nelle cifre: dei 240 miliardi messi a disposizione della Grecia per evitare la bancarotta, 160 sono stati assorbiti proprio dalle banche. Secondo alcune stime, meno del 22,5% delle risorse concesse ad Atene in cambio della sottomissione alle ricette indigeribili dell'austerity sono finite al servizio del bilancio ellenico, cioè ad esempio per pagare stipendi e pensioni; un altro 28% circa è stato impiegato per tenere in piedi il quasi moribondo sistema creditizio greco.

Se la cura ha da un lato stremato la Grecia, spianando di fatto la strada all'affermazione di Tsipras e alla sua idea di dare un calcio al rigore, dall'altro ha perfettamente funzionato sulle banche. L'esposizione si è ridotta, complessivamente, a poco più di 30 miliardi, con godimento massimo proprio da parte degli istituti francesi e, seppure in misura inferiore, tedeschi. C'è però un “piccolo“ effetto collaterale da non sottovalutare. I governi europei custodiscono oggi il 60% del debito di Atene (l'8% è in “pancia“ alla Bce, il 12% è nelle mani del Fmi), sulla base del meccanismo che ha trasformato i prestiti concessi dalle banche con troppo disinvoltura in obbligazioni per i governi. Vale a dire, per le tasche dei contribuenti. L'Italia ha fatto la sua parte mettendo sul piatto 40 miliardi (calcolando i prestiti bilaterali e le quote nella Bce, nel fondo salva-stati Esm e nell'Fmi), una cifra esageratamente alta se rapportata all'esposizione delle nostre banche e anche se confrontata ai 60 miliardi sborsati dalla Germania e ai 46 della Francia.

Le regole sono queste e vanno d'altra parte rispettate, soprattutto se si crede che questo impianto risponde a quel principio di solidarietà che dovrebbe fare dell'Europa una vera Unione. Peccato, però, che questo stesso criterio non sia stato adottato in occasione del deragliamento di Cipro, nel 2013. In quella circostanza, infatti, si preferì puntare sulla formula opposta, quella del bail in. Ovvero, a pagare la crisi delle banche cipriote furono i privati: dagli azionisti fino ai correntisti con depositi superiori ai 100mila euro.

Del resto, anche il quantitative easing, con cui la Bce di Mario Draghi ha aperto la stagione degli

acquisti di bond sovrani, risponde più o meno a questa logica, mutualizzando appena il 20% dei rischi e caricandone il peso dell'80% sulle spalle delle singole banche centrali nazionali. Un Qe non troppo equo e solidale.

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