Negli Usa sono andati nel panico, l'autrice de Il paese delle prugne verdi nessuno l'aveva sentita nominare, al contrario del Nobel per la pace Barack Obama, che ha lasciato sorpresi per altre ragioni e inaugura un nuovo trend: il Nobel sulla fiducia, per le buone intenzioni. Si potrebbe pensare che sotto i Nobel ci siano giochi di scommesse clandestine, così uno non indovina mai. L'altro ieri per il premio per la Letteratura, tra i rumors, qualcuno azzardava Vidal, qualcun altro Delillo, Oates, Munro, ogni anno l'eterno ritorno di Philip Roth. All'improvviso salta fuori il nome, e ognuno rimugina tra sé e sé: chi? Dal giorno dopo lo conoscono tutti, o almeno fingono, anche perché Google è a portata di mano. Come no, la Müller. Subito scatta un tripudio di cut and paste: «romeno-tedesca, appartenente alla minoranza degli Svevi nel Banato e nella Transilvania, quel ramo minoritario della più vasta famiglia degli Svevi del Danubio... ». Qualcuno sente male «Henry Miller? Non è morto?». Qualcun altro, sentendo Transilvania: «Certo che la conosco, è l'autrice di Dracula». «Non è la ragazzetta della Ballata delle prugne secche?». «Ma cosa dici, quella è Pulsatilla, la Müller è una grande... le prugne verdi... ».
L'indomani l'importante è che ci siano ragioni edificanti, morali, civili, cose belle e buone da dire. L'Unità, il quotidiano femmina formato pochette fondato da Antonia Gramsci, per esempio, è felicissimo, e può titolare «Anche nella letteratura il Nobel è donna». Come l'utero, la letteratura è mia e me la gestisco io. Hanno elencato le altre nobelesse, la Greider, la Blackburn, la Yonath, con la dicitura «più belle, più intelligenti» (potevano non mettere le foto, almeno). E come se la Müller, lì all'Unità, se la fossero sempre spalmata sul pane a colazione, quasi fosse la Luxemburg. Con dei passaggi comici, imperdibili, dove si commenta come a Stoccolma «si certifica una rivoluzione avvenuta», quella delle donne, mentre da noi, a causa di Berlusconi «l'icona femminile sono la escort o altre declinazioni di un primitivo e perverso rapporto sesso-potere, nel mondo le donne vincono i Nobel». Comunque oggi il Nobel l'avrebbero dato a Anna Frank, non certo a James Joyce, a Marcel Proust, a Robert Musil, maschi stronzi e disimpegnati. Non più a William Faulkner o Samuel Beckett o a quel fascista di Pirandello, per non parlare di quel nazista antisemita di Céline, o a quel frivolo di Oscar Wilde. Anche il Manifesto gongola come meglio può, sebbene insomma lei, la Müller, si sia opposta alla dittatura di Ceausescu e sia scattata «la mordacchia del regime», un regime dall'altra parte del muro di Berlino, non certo della Nato, e però vàglielo a spiegare, al quotidiano comunista, ora sono diventati antitotalitari anche loro (anzi antitotalitarie, pardon). Emil Cioran se ne andò a scrivere in Francia, e niente Nobel. Gombrowicz in Sudamerica, e niente Nobel. Grandi opere, ma maschi e menefreghisti e non abbastanza minoritari.
Oltretutto dei nostri hanno già scelto Dario Fo, Carmelo Bene aveva troppe opere e se ne usciva con pensieri tipo «chi se ne fotte del Ruanda», quanto agli scrittori veri Arbasino era troppo snob, e Aldo Busi, troppo televisivo e egocentrico, si sarebbe presentato in tailleur e tacchi a spillo e avrebbe annunciato «après moi le déluge».
L'Italia letteraria comunque ormai è andata, prima ci sono le minoranze sudanesi e nigeriane da accontentare, e chissà quanti scrittori minori, minoritari, oppressi e femmine nel Caucaso, in Armenia, in Arzerbaigian. Franz Kafka l'avrebbe salvato solo il duo Deleuze e Guattari, in quanto «letteratura minore» scritta da uno scrittore di una lingua minore, il ceco, in una lingua maggiore, il tedesco.
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