Una tesi particolarmente diffusa a riguardo del mercato del lavoro è che maggiore flessibilità in uscita determini automaticamente maggiore occupazione. Di conseguenza la rigidità dei regimi di protezione dell'impiego non può che incidere negativamente sui flussi di occupazione e disoccupazione. Questo assunto è tutt'altro che pacifico. Secondo l'OCSE, tra le economie avanzate, l'Italia risulta nelle prime posizioni per peso delle restrizioni al licenziamento. Un citatissimo paper scritto nel 1994 dal premio Nobel Paul Krugman suppone che la disoccupazione sia più alta in Europa in ragione di una minore flessibilità del mercato del lavoro. Tra gli studiosi il dibattito non ha mai perso di interesse, ma molte conclusioni sono andate rivalutandosi. In molti sostengono che laddove sono più forti i regimi di protezione dell'impiego la probabilità di diventare disoccupati è bassa, ma, quando si è disoccupati, è molto difficile entrare nel mercato del lavoro. Ulteriore dottrina, al contrario, dimostra non esserci un legame tra tasso di disoccupazione complessiva (o giovanile) e rigidità regolatoria.
Senza considerare le molte posizioni ideologiche e anacronistiche sull'articolo 18 (e fa bene il premier Monti a definirlo un "tabù" da superare) bisogna quindi prendere atto che non vi è una posizione unanime tra gli studiosi.
Questo dibattito è ora al centro del confronto politico italiano. In un recente articolo sul Corriere della Sera Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno sostenuto, contemporaneamente, l'abolizione dell'articolo 18 per ammorbidire la legislazione a protezione dell'impiego, l'importanza per i giovani di lavorare con un contratto non precario, la necessità di prevedere forme di sussidio alla disoccupazione. A onor del vero la dottrina economica non è concorde neanche a riguardo degli esiti benefici del sussidio di disoccupazione, che ha l'effetto di innalzare il salario di riserva dei giovani, spingendoli a rifiutare un maggior numero di proposte di lavoro. Certamente appare curioso il sostegno a due posizioni che apparentemente vanno in direzione contraria: la flessibilizzazione del lavoro per il tramite dell'intervento sullo Statuto dei lavoratori, da una parte, e la garanzia di indeterminatezza della durata del posto di lavoro dall'altra. Indeterminatezza che però non è certo da intendersi come concepita ora, poiché attualmente a questo concetto non è associata solo una dimensione temporale, ma anche una sicurezza normativa "in uscita".
Novità di questo genere sarebbero in grado di generare maggiori posti di lavoro, in particolare per i giovani? Pare semplicistico suppore che i giovani, in questo difficile periodo storico, siano svantaggiati innanzitutto da ritardi normativi. Tanto più che a oltre il 70% di loro viene ad oggi proposto un contratto senza articolo 18. Quel che li penalizza sul mercato del lavoro è, invece, il gap di esperienza e produttività. La produttività, in particolare, è l'arma più efficace per accrescere l'occupazione, poiché un suo aumento solitamente genera maggiore domanda di lavoro. Per incrementare la produttività lavorativa di un giovane alle prime esperienze non vi è altra leva che la formazione. Questo è l'ingrediente assente nella maggior parte delle ricette per la riforma del diritto del lavoro in questo momento all'attenzione del governo.
Come hanno notato tutti e tre i sindacati nel documento Per il lavoro, la crescita, l'equità sociale e fiscale presentato il 17 gennaio, un contratto di ingresso per i giovani, protetto e formativo, in Italia esiste già: è il contratto di apprendistato. Non più tardi di un anno fa questo contratto è stato definito da regioni e parti sociali come il principale e privilegiato canale di ingresso nel mondo del lavoro.
*Vicepresidente Adapt
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